Recensione: “Nadir – L’edificio del silenzio”, tra violenza, mito e segreti inconfessabili

Recensione: "Nadir - L'edificio del silenzio", tra violenza, mito e segreti inconfessabiliMa guarda un po’, mi sono imbattuto in uno scrittore brianzolo. Perché lo evidenzio? Perché siamo conterranei: Walter G. Pozzi di Monza, io di Vimercate. Vimercate (IBM Italia) è tanto vicina a Monza, che quando c’è il Gran premio di Formula 1 il rombo dei bolidi giunge tra le case della cittadina come il brontolare di un temporale non lontano. Ma questo non interessa a nessuno. Può invece risultare interessante sapere che delle sue origini brianzole Walter G. Pozzi ha tenuto conto quando ha deciso, da giovane studente, di piantare tutto il quieto perbenismo brianzolo che condizionava la sua vita e intrappolava la sua personalità, per gettarsi nel mondo del lavoro e, dopo la sperimentazione di vari mestieri (compreso quello di maestro di tennis), approdare definitivamente – da innamorato dello scrivere – all’editoria. Acquisendo il merito indiscusso di aver fondato prima (2006) la rivista letteraria e politica Paginauno e poi (2010) l’omonima e meritoria casa editrice.

E oggi non è tenero, Walter G. Pozzi, con i brianzoli – così come non lo fu il Manzoni: non ditemi che Renzo e Lucia sono campioni di intelligenza e di intraprendenza. In una recente intervista, l’autore di Nadir non la manda a dire: Sarei curioso di sapere quanti monzesi leggono più di un libro all’anno. E quanti in tutta la Brianza.

Probabilmente ha ragione. E io, per ottenere da lui un’assoluzione preventiva, mi affretto a chiarire e dichiarare solennemente che, nonostante sia vimercatese, e dunque brianzolo, di libri ne leggo un buon centinaio all’anno. Compreso il suo poderoso romanzo Nadir – L’edificio del silenzio.

E non mi limito a definirlo poderoso. Innanzitutto, adottando il metro di giudizio usato da Italo Calvino nei confronti del romanzo moderno, si tratta di un vero e proprio romanzo, di quelli che se ne vedono ormai pochi in giro. Non solo e non tanto per la quantità di pagine, per il peso fisico, quanto piuttosto per la sostanza dei contenuti, per la ricchezza di concetti, di figure retoriche e di personaggi universali.

Il romanzo di Pozzi è anche affaticante. Si badi bene, non ho detto faticoso. E non mi si fraintenda: non voglio scoraggiare il lettore, voglio solo avvertirlo. Perché si munisca degli strumenti spirituali necessari ad affrontare il tormentoso viaggio della lettura. Infatti, se dovessi sintetizzare telegraficamente, dovrei dire che la lettura di Nadir è una notturna immersione in un abisso, che a volte sembra caverna piena di graffiti, a volte pozzo maleodorante e senza fine, a volte ancora buia foresta priva di sottobosco e resa inquietante da suoni sinistri.

Nadir è stato accostato a Cent’anni di solitudine di Gabriel García Márquez. Perché c’è un villaggio inventato (Vilnarmaisi) che richiama Macondo. Perché tutto ruota intorno a un personaggio che è terrore e mito, dominio e follia (il Colonnello Argus Toiffel), che rimanda quasi obbligatoriamente (quantomeno per le ossessioni e gli appetiti sessuali) ad Aureliano Buendía.

Ma, a parte che, se proprio dobbiamo scomodare García Márquez, allora preferisco accostare il Colonnello Argus Toiffel di Pozzi all’anonimo dittatore de L’autunno del patriarca, l’accostamento a García Márquez finisce qua.

Nadir è un excursus continuo, un ininterrotto vai e vieni lungo una striscia storica lunga un secolo, dall’Unità d’Italia con annesso fenomeno del brigantaggio, ai tempi nostri, passando per il ventennio fascista. E in questa striscia di tempo (il luogo è per lo più, come già detto, l’inventato e poco descritto villaggio di Vilnarmaisi, ma si sconfina diverse volte, si arriva anche in America), il viaggio – tortuoso e a volte schizofrenico – è condotto dalle testimonianze di alcuni dei personaggi. Testimonianze che si incrociano, si sovrappongono, si contraddicono, fino a uno svelamento finale che spiega e sorprende. E addolora.

Sì. È doloroso il romanzo di Pozzi. Anche questo è un avvertimento che mi sento in dovere di dare al lettore. Non sono solo la ferocia e la smodata avidità sessuale (che non risparmia nemmeno le bambine) del Colonnello a sorprenderci dolorosamente. Non c’è

nessun altro personaggio (e non sono pochi) che si salvi da un giudizio che utilizzi il metro del senso comune. Tutti sono immersi nella violenza, nel dolore, nella menzogna, nei silenzi omertosi. Compreso Goliath, lo scimpanzé femmina di proprietà del Colonnello e suo coesecutore di sentenze e di vendette. Compreso il Grande Maya, l’albero i cui robusti rami sono deputati a feroci e sommarie impiccagioni.

Il tutto – questa nota di merito va assolutamente aggiunta – con una scrittura dai sapori gotici, ricca e formalmente perfetta, che è musica per orecchie ormai avvezze ai messaggini whatsapp. Il che, non mi stancherò mai di ripeterlo, a mio avviso è indispensabile a un romanzo che vuole (e, come questo, riesce a) essere più di un buon romanzo.

Buona lettura, dunque. Anzi: buon viaggio nell’abisso di violenza e menzogna di Vilnarmaisi.

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