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Recensione: “Nella pancia del Gatto” – Una fiaba inconsueta

Recensione: "Nella pancia del Gatto" - Una fiaba inconsueta Recensione: "Nella pancia del Gatto" - Una fiaba inconsuetaNella pancia del Gatto
di Magdalena Hai – Teemu Juhani
traduzione di Elena Entradi
Editore: Terre di Mezzo

Nella pancia del gatto di Magdalena Hai, con illustrazioni di Teemu Juhani, è una fiaba inconsueta. Dimentichiamo le vecchie storie dove lupi e orchi mangiano bambini senza chiederne il permesso, qui la faccenda è anomala. Un mostruoso gigantesco gatto, prennemente affamato e una minuscola bambina stringono un patto: lui non la mangerà se lei riuscirà a procurargli del cibo nell’arco di un intero giorno, in un mondo desertificato e sofferente.

La storia, che diventa una storia d’amicizia, quasi di dipendenza, e quindi di recinzione, di assenza, di mania, tra l’enorme gatto peloso e la bambina piccina, ma proprio piccina, ci perviene per mezzo di una narrazione originale, disturbata, distopica, ravvisata spesso in esempi passati dei racconti gotici dell’orrore.

Nel tratteggio fitto delle illustrazioni, simili a nordiche incisioni, che delinea i contorni di un mondo nudo e ostile, e, nelle chine tremolanti che configurano i due protagonisti, coppia improvvisata che via via diviene dipendente e prigioniera del proprio legame, prende vita una previsione di una realtà immaginaria. Il presagio è nefasto, un ipotetico mondo è portato al limite estremo di povertà e negatività. La storia descrive pericoli percepiti nella società attuale ma collocati in un contesto lontano dalla realtà, nel tempo e nello spazio.

Che qualcosa non quadrasse emerge fin da subito: perché un goffo enorme gatto vuol mangiare una piccolissima bambina, così piccola che “perfino le lepri la superavano in altezza di una testa”? I segnali di un rapporto “originale” si leggono nell’anomalo apparato narrativo imbastito dalla Hai tipo quando la bambina estrae una spada dalla sabbia e con quella immagina di impedire al gatto di mangiarla. Ma tra lei e il gatto sta nascendo un’amicizia, una complicità forzata, non può fargli del male. Allo stesso modo, il gatto prova per lei simpatia e si dispiace al pensiero di doverla mangiare comunque, per troppa fame.

Nasce nella storia la necessità di inserire un elemento capace di spezzare l’insalubre equilibrio illustrato, quale migliore soluzione se non la scelta di introdurre un essere maligno in grado di attirare su di sé ogni colpa: Digius, quasi un demone, dentro il gatto ovviamente. In realtà l’ometto non sembra nemmeno così tremendo, l’azione che compie, tanto devastante per l’animale e per il mondo intero, è da lui vissuta con superficialità e indifferenza, lui aveva solo fame.

Constatata la causa di tutte le tragedie il racconto entra in fibrillazione: al bianco e nero si aggiunge un altro tono, il brillio del coraggio che dilaga in ogni direzione, nella pancia del gatto, in uno spazio onirico dove forse la bambina comprende la bassezza dell’avidità e dell’egoismo e l’impossibilità di estirparli definitivamente.

E così, tra stranezze e bizzarrie ci arriva dritta dritta la morale della favola con tanto di minuziosa preparazione, coronamento di una visione curiosa e bislacca solo a una distratta occhiata, ma cupa e realmente oscura nella sua essenza: se non si interviene con urgenza sull’ingordigia umana, sapendola riconoscere e tenere a bada, ci saranno nefaste conseguenze. Bisogna scovare il mostro che abita in noi, conoscere i suoi perché, dunque conviverci e imparare ad addomesticarlo. Digius è un mostro dell’anima e come tale va affrontato, combattuto e infine tenuto a bada.

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