Recensione: “Belletti e il lupo”, il commissario che sfida i cliché del giallo moderno

Recensione: "Belletti e il lupo", il commissario che sfida i cliché del giallo modernoQuando, verso la fine del secolo scorso, ho iniziato la mia carriera di suiveur del genere giallo-nero – definizione ibrida, nella quale voglio ricomprendere l’intero ventaglio che va dal poliziesco classico, nel quale arrivano sempre i nostri a scoprire e punire il cattivo, al più cupo pessimistico noir, nel quale tutti sono cattivi e disperati e destinati all’inferno, nessuno escluso – era abbastanza facile pescare i libri giusti, perché quel vasto mare era popolato dalle solite firme: John Banville, Jean-Claude Izzo, Derek Raymond, Jan Rankin, Joe R. Lansdale, Jean-Patrick Manchette, Francisco Gonzàles Ledesma. E non molti altri. E gli italiani erano pressoché assenti.

Oggi, il panorama del giallo-nero è profondamente cambiato. Tutti si sono messi a scrivere gialli.

E in questa corsa al black writing ci si sono messi di buzzo buono anche gli italiani, alcuni dei quali nulla hanno più da invidiare ai maestri amerikani e francesi.

Tutto questo per dire che oggi, in avanzato e galoppante ventunesimo secolo, è sempre più difficile (più modestamente: mi è sempre più difficile) imbattermi in un poliziesco o in un thriller che si distingua tra i tanti del genere. Che valga davvero la pena di essere letto come una cosa nuova. Per intenderci ed esemplificare: un poliziesco in cui non ci siano il poliziotto lui e la poliziotta lei che all’inizio si sono reciprocamente antipatici e poi finiscono nello stesso letto a pagina quarantasette o giù di lì.

Tutto questo, in particolare, per dire che Paolo Scardanelli, con il suo commissario Alvise Belletti, questo facile e quasi inevitabile rischio di cadere nello stereotipo abusato e ormai stantio ha saputo evitarlo. E alla grande. Applicando una cifra stilistica del tutto sua. Colta e smaliziata. In precario e continuo equilibrio tra il paradiso dell’etica e l’inferno dell’estetica del successo.

Il commissario Alvise Belletti da Erba (terra di confine tra la Brianza e il Comasco, terra ibrida) agisce senza compromessi in nome della Giustizia con la G maiuscola, e si scava professionalmente la fossa nel tentativo donchisciottesco di sconfiggere la in-giustizia, la giustizia con la g minuscola, asservita al potere economico che impera indisturbato, che governa la metropoli (siamo a Milano) e la Nazione.

Il commissario Belletti si destreggia con acume e determinazione in un caso di povera gente – l’omicidio in un cantiere di un operaio carpentiere – e lo risolve in quattro e quattr’otto. Con lo stesso acume e identica determinazione affronta il brutale omicidio di una modella perpetrato in una lussuosa casa di via Moscova (una delle vie emblematiche della Milano da bere), e si scava con le sue mani la fossa, senza cedere di un millimetro alle chimere del compromesso carrieristico.

Una peculiarità dell’originale romanzo di Scardanelli (la stessa che è facile riscontrare in quasi tutti i film di Alfred Hitchcock) è che nel delitto di via Moscova il lettore sa già chi è il colpevole, perché è lo stesso autore a svelarcelo raccontando per filo e per segno il delitto e attribuendone immediatamente la paternità.

Non c’è nulla da scoprire, dunque. C’è solo da accompagnare il commissario Belletti nelle sue capocciate moraliste contro la corruzione del potere, lungo il sentiero che lo porterà alla sconfitta.

E questo sentiero è costellato di ripetute, ossessive riflessioni filosofiche; di descrizioni memorabili di una Milano fascinosamente avvolta nella nebbia, con la brutta periferia depredata dalla speculazione edilizia che si sta divorando la campagna circostante; di intimi siparietti con una moglie malata terminale e una figlia orgogliosa del padre; di soste rilassanti nella sua osteria, a pranzare in solitario con confortevoli piatti della cucina milanese (la cassoeula; la busecca, vale a dire la trippa alla milanese) annaffiati dal solito mezzo litro di Barbera (la Barbera, articolo femminile che distingue il rude Barbera piemontese da quello più ingentilito dell’Oltrepò).

Forse sta proprio qua la principale e originale cifra del romanzo di Scardarelli: un continuo altalenare tra speculazioni filosofiche ad alta voce e i momenti della consolazione nei due rifugi che il commissario Belletti predilige: la famiglia e la frugale mensa.

È una lingua molto colta e forbita, quella di Scardanelli. Una lingua di cui sento particolarmente il bisogno in questa deriva verso scorciatoie linguistico espressive imposte dalla comunicazione social.

E, se mi toccasse intervistarlo, cercherei di approfondire il suo rapporto dicotomico con la Sicilia, da cui proviene e in cui l’editore Carbonio lo colloca abitualmente (tra l’altro è la Sicilia che amo di più, il Catanese), e con quella Milano degli anni Ottanta del secolo scorso, che conosco tanto bene e dalla quale, proprio in quel periodo, sono definitivamente fuggito.

Al momento, poco ci è concesso. L’editore Carbonio (complimenti e auguri di lunga vita) si limita a dire: “Nasce a Lentini nel 1962. Geologo, vive nella Sicilia orientale. Poco altro si sa di lui”. Che avarizia di informazioni!

Chissà se non ci sarà dato di conoscere un altro poco di lui, seguendo il commissario Belletti a Catania, dove la caparbietà e l’insuccesso lo hanno scaraventato per punizione, nel sequel di assai prossima pubblicazione: Belletti e Romeo, Carbonio Editore, disponibile dal 4 luglio 2025.

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