Lincoln e l’abolizione della schiavitù

Quando Lincoln viene eletto alla presidenza degli Stati Uniti d’America, nel novembre del 1860, la questione della schiavitù – del suo possibile rafforzamento o della sua graduale estinzione – divide il paese da anni. Lincoln è a capo dello schieramento che si oppone all’estensione territoriale della schiavitù. Paolo Mieli ne parla con la professoressa Raffaella Baritono a “Passato e Presente”, in onda sabato 7 giugno alle 20.30 su Rai Storia. Sebbene quella di Lincoln sia una posizione moderata, che non mette in discussione l’esistenza costituzionalmente garantita dello schiavismo negli stati che già lo praticano, larga parte del Sud del paese respinge la sua vittoria come una minaccia esistenziale e sceglie la secessione. La guerra è inevitabile ma, tanto per Lincoln quanto per la maggioranza del Nord, si tratta di una guerra da combattere per ripristinare l’unione, non per abolire la schiavitù. Sarà la logica interna al conflitto a imporre una radicalizzazione degli obiettivi bellici che, nel gennaio del 1863, porterà al proclama di emancipazione e, tre anni più tardi, alla ratifica del XIII emendamento della Costituzione americana, quello che vieta la schiavitù nell’intera giurisdizione degli Stati Uniti.
La memorabile affermazione pronunciata da Abraham Lincoln alla vigilia della Guerra di secessione dovette suscitare senz’altro una forte emozione tra quanti lo ascoltavano: «Una casa divisa in sé stessa non può rimanere in piedi. Credo che questo governo non potrà durare in eterno per metà schiavo e per metà libero». La parabola della casa divisa in sé stessa, e destinata dunque a crollare, appare nei Vangeli; tuttavia Lincoln non stava glossando la Bibbia: le sue parole costituivano parte del discorso tenuto in occasione della sua nomina quale candidato repubblicano al posto di senatore per lo Stato dell’Illinois, nelle elezioni del 1858. A lui si contrapponeva il democratico Stephen A. Douglas.
Appuntamento assolutamente da non perdere.
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