Il primo impulso stimolatomi dalla lettura del saggio filosofico Un senso alla vita (Treccani) è stato quello di conoscere il volto di Pascal Chabot, filosofo belga classe 1973. Perché sono un convinto sostenitore della teoria che la fisionomia di una persona ne rivela la personalità, i caratteri nascosti. La faccia di una persona è la punta dell’iceberg sommerso che la compone, ti indica quasi sempre se puoi fidartene o no, se puoi farci un viaggio con il sacco in spalla lungo il Camino de Santiago, se potrà essere un buon depositario delle tue confidenze.
È stato facile rinvenire in internet l’immagine dell’ancor giovane filosofo belga, la sua faccia paciosa circondata da un bel barbone, spessi occhiali da studioso a distinguerlo dal tuo droghiere sotto casa, quello che ti mette da parte il culetto del San Daniele.
Ed è stato altrettanto facile confermare la sensazione di profonda empatia, di incondizionata gratitudine per i contenuti, appassionati e appassionanti, del suo saggio. Un saggio che mi ha scosso, mi ha rivoltato l’anima come un calzino, mi ha schiaffeggiato e confortato, inoculato una realistica dose di pessimismo e una contro dose di utopica speranza.
Perché – come evidenzia il sottotitolo del libro – si tratta di una Indagine filosofica sull’essenziale. E non potrebbe essere altrimenti, quando si ha l’ardire di disquisire tout court sul senso della vita umana. Sulla vita umana di oggi, cioè sull’uomo contemporaneo che sta – deliberatamente o inconsapevolmente – creando i presupposti e le fondamenta di un’era postumana e, attraverso la delega di funzioni all’intelligenza artificiale, costruendo la propria trasformazione in macchinoide (preludio all’autoestinzione, al harakiri?).
Potrebbe sembrare troppo ambizioso il compito che in questo saggio sul senso della vita umana si prefigge Chabot. O addirittura smaccatamente presuntuoso. Chi crede di essere questo qui? Viene a insegnarci a come vivere? No. Nel suo saggio il filosofo belga affronta l’apparentemente ambizioso compito di indagare sul senso della vita per l’uomo contemporaneo, utilizzando gli strumenti artigianali dell’analisi, scomponendo e ricomponendo, con scrupolo e meticolosità certosini, i vari elementi della ricerca per giungere a risultati difficilmente oppugnabili.
Tutta la vita umana si svolge nell’intreccio di percorsi che possono snodarsi all’interno di un triangolo i cui vertici sono costituiti da: il senso come sensazione, il senso come significato e il senso come orientamento, direzione.
Il senso-sensazione è comune a tutti gli esseri viventi, animali o vegetali che siano.
Il senso-significato è invece peculiare dell’uomo, perché legato alle parole, e cioè al linguaggio convenzionale che l’uomo nel corso della sua millenaria vita ha inventato e affinato per comunicare, significare, interpretare, memorizzare, eccetera.
La nozione di senso-direzione, infine, apre le porte alle questioni legate al vivere sociale, alla politica, all’etica. Ed è proprio su questo particolare vertice del triangolo che Pascal Chabot si sofferma maggiormente, per farci comprendere quanto si è immiserita la capacità dell’uomo contemporaneo di scegliere in autonomia la direzione della propria vita, di cogliere altrettanto autonomamente il senso della propria vita.
Perché – qui sta, a mio modo di vedere, il nocciolo dell’enorme questione sollevata da Chabot – l’uomo contemporaneo (l’uomo postumano?) non è più, o meglio, non è tanto, costretto a fare i conti con il subconscio di freudiana memoria, quanto con il molto più subdolo e dominante superconscio, costituito dal sistema di comunicazione digitale che lo sovrasta e domina. Il mondo umano è governato dalla comunicazione digitale. La digitosi è la malattia pandemica dell’umanità postumana.
La vita umana segue ormai sensi unici, anche quando fingiamo (o ci illudiamo) di socializzare tramite WhatsApp o Instagram. Dobbiamo invece riappropriarci del senso comune, che ai bei tempi andati era il collante sociale più importante e diffuso. Dobbiamo provare nuovamente la nostalgia per l’essenziale.El’invitoChabotce
lo fa ricordandoci le parole di un grande e visionario scrittore, Antoine de Saint-Exupéry:
Non capite che, da qualche parte, siamo andati fuori strada? Il termitaio umano è più ricco di prima, abbiamo a disposizione più beni e tempo libero, e tuttavia ci manca qualcosa di essenziale che non sappiamo ben definire. Ci sentiamo meno uomini, abbiamo perso qualche parte di misteriose prerogative.
E pensare che queste cose Saint-Exupéry le scriveva un secolo fa!!!
Sissignori! Che vi piaccia o no, Pascal Chabot non si limita a filosofare. Entra con una poderosa spallata nel campo dell’etica, vagheggia e auspica l’abbandono di un cammino unidirezionale, esalta la nostalgia dell’essenziale, ricordandoci che essa va assolutamente solleticata: immergendoci nella musica, attraverso l’amore e la fusione con l’altro, attraverso tutto ciò che mette in moto il nostro essere e fa riscoprire il gusto di orientamenti ambiziosi e di vagabondaggi risoluti, ma senza meta.
Perché, a dirla con Goethe, non si arriva mai tanto lontano come quando non si sa più dove si va.
Non posso chiudere le riflessioni su questo bellissimo libro, senza citare un passaggio che mi è stato particolarmente caro, che mi ha definitivamente fatto innamorare di Pascal Chabot. È un passaggio proprio sull’amore: Vivere con qualcuno”, scrive Chabot, significa condurre una lunga conversazione che si riannoda continuamente… Un amore che non si nutrisse di parole non durerebbe a lungo. Capita di vederle, nei ristoranti, queste coppie del silenzio, che impiegano tempo per prendere il loro bicchiere e riempire così con quel gesto il grande vuoto lasciato dall’assenza di linguaggio.
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