Cosa intenda fare con il suo libro Essere giusti con Heidegger, cronistoria di una svolta, Mimesis 2025 il professor Maurizio Ferraris, docente ordinario di filosofia all’Università di Torino, a noi profani degli studi filosofici non appare totalmente chiaro.
L’autore però è anche il fondatore del Ctao (centro interuniversitario di ontologia e teorica applicata), e allora tutto appare più chiaro: il suo libro, le sue dissertazioni circa l’opera del grande filosofo Martin Heidegger – soprattutto sul suo capolavoro, Essere e Tempo – sono una sorta di memoriale difensivo del Maestro, a detta del Prof. troppo sbrigativamente relegato e condannato in quanto sodale del nazismo come un pentito in ritardo dall’ambiente filosofico nazionale e internazionale.
Il rapporto di Heidegger col nazionalsocialismo fu in tutto simile a quello di quasi tutti i grandi intellettuali che ebbero a che fare con i regimi totalitari: costretti dal sistema a giurare fedeltà al partito di turno, portarono avanti il loro lavoro fino a quando, alla caduta del regime di cui sopra, il nuovo regime li epurò e/o li condannò.
Ma qual era la colpa di Martin Heidegger? Esistono diverse risposte, io proverò a darvi la mia, perché non sono un filosofo, ma reputo necessario quadrare la questione onde favorire la comprensione dell’opera in esame.
Heidegger riportò la filosofia al posto che le spettava, dopo secoli di dissertazioni fra colti: rifiutò perciò il paragone con i suoi contemporanei per mettersi accanto ai presocratici, a Sofocle, se vogliamo anche a Shakespeare.
Di cosa deve parlare la filosofia? si chiedeva il buon Martin. E la risposta fu: dell’ontologia, ovvero dell’essere, il problema irrisolto dell’Uomo. Prendendo le mosse dagli antichi filosofi Heidegger teorizzò che il problema dell’essere, la madre dei diecimila esseri (per dirla col Tao Tê Ching) era un cul de sac in cui l’essere umano si infilava volontariamente dalla notte dei tempi per capire se in effetti fosse vivo o meno.
Non trovò molti sodali, nel suo tempo, se non uno, – che non era propriamente un filosofo – Ernst Jünger, autore del mirabile Trattato del ribelle, di Nelle tempeste d’acciaio, La battaglia come esperienza interiore e di molte altre opere di grande interesse, anche letterario. Ora però, a differenza di Jünger, Heidegger non solo non prese le distanze dal nazismo, ma andò a occupare il posto di rettore dell’Università di Friburgo, sostituendo Wilhelm von Möllendorff. Il voto a favore di Heidegger fu pressoché unanime: gli unici tredici voti che non lo appoggiarono, su novantatré disponibili, furono proprio i voti dei professori ebrei che in virtù del decreto attuato dal Gauleiter per il Baden, Robert Wagner, non poterono essere conteggiati (va attestato che dei restanti 80 solo 56 presero parte alla votazione).
Come se non bastasse, il 27 maggio si insediò ufficialmente al rettorato, tenendo il famoso discorso Die Selbstbehauptung der deutschen Universität (L’autoaffermazione dell’università tedesca). Gli effetti di questo discorso furono molteplici e con valutazioni contrastanti, da una parte Heidegger lo ricorderà nel 1945 nel Das Rektorat 1933/1934. Tatsachen und Gedanken (Il rettorato 1933/1934. Fatti e pensieri) sostenendo che già il giorno successivo se lo erano dimenticati tutti e che nulla cambiò; la stampa nazionalsocialista esultò; i commentatori stranieri, tra cui Benedetto Croce nella lettera a Karl Vossel del 9 settembre 1933, lo valutarono come inadeguato e opportunista, criticando il testo. Diversa la valutazione di Karl Jaspers che il 23 agosto 1933 inviò una lettera a Heidegger per complimentarsi, anche se successivamente spiegò che voleva dare la migliore lettura possibile di quel discorso per mantenere con lui un dialogo aperto. Franco Volpi notò come il testo fosse influenzato dal Der Arbeiter. Herrschaft und Gestalt (1932) di Jünger, questo per la sua suddivisione nel triplice compito: Arbeitsdienst (servizio del lavoro), Wehrdienst (servizio di difesa) e Wissensdienst (servizio del sapere) consegnando a quest’ultimo il ruolo primario.
Tornando al libro, il professor Ferraris cerca di pigliare l’argomento entrando dalla finestra Ci dice: parliamo della filosofia e delle opere di Heidegger e vediamo se tra i postulati espressi nel periodo nazista e quelli proposti nel secondo dopoguerra vi sono delle differenze, delle correzioni o precisazioni di un pentito.
Dal suo saggio, va detto, si rileva che non ve ne furono. Ed esultiamo per questo. Perché il libro di Ferraris non è un’agiografia sperticata o un pamphlet che rischia di trasformarsi in un pasticciato e filosofico j’accuse contro l’ambiente filosofico degli ultimi cinquant’anni; bensì una puntuale sintesi delle ricerche concrete e dello studio di una vita sulle opere, e non sulle scelte, di un grande pensatore (forse il più grande del nostro secolo).
Chi è che accusa Heidegger? Si chiede Ferraris. E la risposta è presto data: i preti del pensiero scientifico e del 2+2=4. O, peggio ancora, coloro che negli anni ’30 si accorsero della piega che stavano prendendo gli eventi e non fecero nulla, salvo poi saltare sul carro del vincitore quando sul Reichstag la bandiera con la falce e il martello sventolava già da settimane.
Ogni scienza è filosofia, che lo voglia o no. Compito della filosofia come organo dello spirito è per l’appunto superare la dispersione essenziale che vige tra le scienze che credono di rapportarsi a delle evidenze – mentre sono all’oscuro del carattere della verità – per comporle e raccoglierle.
Heidegger, in realtà, durante tutta la sua vita fu spiacente a Dio e ai nemici suoi, perché questo è il destino di coloro che basano il proprio pensiero e quindi il proprio operare sull’evidenza imprendibile della madre dei diecimila esseri, ovvero l’essere. Nel 1935, difatti, scriverà: L’esserci ha preso a scivolare in un mondo privo di quelle profondità dalla quale l’essenziale sempre viene e ritorna all’Uomo e gli si propone spingendolo a una superiorità che gli dà una posizione da cui agire. Tutto viene così ridotto al medesimo livello, su di uno stesso piano, simile alla superficie appannata di uno specchio che non riflette e non rimanda più alcuna immagine.
L’immagine filosofica di Heidegger, secondo Ferraris, è scivolata sullo specchio dei tempi, ed è proprio per questo, a mio parere, che il suo libro diventa più che mai necessario. Perché se c’è da fare chiarezza, è necessario farla materiale alla mano. Altrimenti continueremo a vivere di damnatio memoriae e dichiarazioni prudenti. O malleabili.
La svolta sulla quale Ferraris si interroga, in realtà non è mai avvenuta. Il pensiero di Heidegger, assieme con le sue opere, sono immutabili. Resistono ai tempi e ai cambi di regime perché sono perfetti. Direi eterni. E questo ai sistemi, di qualunque tipo essi siano, non piace e non piacerà mai.
Scrive Heidegger: Io vidi allora nel movimento giunto al potere (il nazismo, ndr) la possibilità di una più intima unità e di un più profondo rinnovamento del popolo, una via per trovare la propria destinazione nella storia come popolo dell’occidente.
Heidegger e Jünger sono fulgidi esempi di onestà morale ed intellettuale. Certo molto diversi tra loro; ma accomunati dall’amore per la verità e per la ricerca, dalla convinzione che la spaventosa cultura dei moderni è il contrario della grecità, che per parte sua non potrebbe definirsi colta nel nostro senso, proprio perché il genio dei greci consistette nel superamento della congerie di culti e dottrine provenienti dall’oriente, e nell’imporsi di quella eterna giovinezza in cui si radica l’essenza del classico.
Insomma, Essere giusti con Heidegger, cronistoria di una svolta è un libro cui accostarsi con calma e pazienza, ma ha la funzione tutta chiropratica di rimettere in asse la colonna del nostro discernimento. Un autore si può giudicare solamente in base a quello che fa. A questo postulato Ferraris ne aggiunge un altro ancora: la coerenza con la quale il filosofo di turno costruisce le sue teorie per farle durare in eterno, non farle invecchiare mai. La voce dei coerenti, poi, si sa, spesso somiglia a quella di colui che grida nel deserto, ma Heidegger pare non preoccuparsi di troppo. E, in qualche modo, tenta di darci una ricetta per portarci dalla sua parte.
Concluderei volentieri questa recensione citandovela direttamente.
L’uomo parla. Noi parliamo nella veglia e nel sonno. Parliamo sempre, anche quando non proferiamo parola, ma ascoltiamo o leggiamo soltanto, persino quando neppure ascoltiamo o leggiamo, ma ci dedichiamo a un lavoro o ci perdiamo nell’ozio. In un modo o nell’altro parliamo ininterrottamente. Parliamo, perché il parlare ci è connaturato. Il parlare non nasce da un particolare atto di volontà. Si dice che l’uomo è per natura parlante, e vale per acquisito che l’uomo, a differenza della pianta e dell’animale, è l’essere vivente capace di parola. Dicendo questo, non s’intende affermare soltanto che l’uomo possiede, accanto ad altre capacità, anche quella del parlare. S’intende dire che è proprio il linguaggio che fa dell’uomo quell’essere vivente che egli è in quanto uomo. L’uomo è uomo in quanto parla. È la lezione di Wilhelm von Humboldt. Resta però da riflettere che cosa significhi: l’uomo.
Commenta per primo