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Recensione: “Flee”, la condizione di sentirsi profughi e diversi

Recensione: "Flee", la condizione di sentirsi profughi e diversi Recensione: "Flee", la condizione di sentirsi profughi e diversiFlee, nelle sale italiane a partire dal 10 marzo, è già nella storia del cinema, il primo film a essere candidato all’Oscar come miglior film internazionale e al contempo come miglior documentario e miglior lungometraggio d’animazione.

Ma non è di questo che vi vogliamo parlare, bensì della storia che racconta e del metodo che utilizza per farlo. Dobbiamo fare un salto indietro di 40 anni circa, quando Amin si trova in una Kabul molto diversa da quella di oggi, con le cuffie sulle orecchie e la musica di Take on me degli A-Ha. Ha cinque anni e ama mettersi addosso il vestito della sorella, primo segnale di una omosessualità che non può definire, se non altro perché, in afgano, non esiste una parola per gli omosessuali: semplicemente non esistono.

Amin non sa che fine abbia fatto suo padre, travolto dai convulsi avvenimenti di fine anni ’70, nei quali in Afghanistan si insedia un governo leninista (guidato, curiosamente, proprio da un premier che di cognome fa Amin). Poi sarà costretto a fuggire, con sua madre e i tre fratelli maggiori, a causa della guerra civile scatenata dai mujaheddin alla fine degli anni ’80. Intanto, dalla tv ai poster, i suoi idoli maschili, Jean-Claude Van Damme su tutti, ammiccano alla sua sessualità, sempre meno indefinita e sempre più consapevole.

Il regista Jonas Poher Rasmussen sceglie di cambiare i nomi dei protagonisti per tutelare la loro privacy e la loro sicurezza. Inoltre la vicenda è raccontata attraverso delle animazioni, con disegni realizzati rigorosamente a mano. Due modi di camuffare che sono lo specchio di un racconto inevitabilmente opaco e proprio per questo efficace nel narrare la condizione di rifugiato, quello che deve frettolosamente lasciare la propria casa di Kabul avendo pochi secondi per selezionare le poche cose da portare con sé, abbandonando tutto il resto sapendo che non lo ritroverà mai più.

La storia di Amin e della sua famiglia è l’occasione per affrontare la vita del profugo, prima in una Russia madre-matrigna e poi la Scandinavia o, nel caso di Amin, la Danimarca, dove dovrà spacciarsi per solo al mondo per essere accolto. In mezzo, gli squali: i trafficanti di esseri umani, che trasportano i migranti in condizioni insostenibili, scene drammatiche che colpiscono e fanno riflettere. Impossibile rimanere indifferenti, specie in questo periodo nel quale si fugge da una guerra sentita a noi vicina.

Rasmussen sceglie di rappresentare il vero, descrivendo gli incontri con Amin come un colloquio ininterrotto, dentro e fuori dal set, mostrando il ciak in campo proprio a delimitare il cinema quando serve. Così, la vita di Amin ci scorre davanti come un fiume in piena, lo vediamo sdraiato quasi in una seduta psicanalitica, spesso in difficoltà, talvolta a cercare conforto nell’accoglienza del compagno, che sta per sposare.

Non ci vuole molto a capire perché Flee sia così apprezzato da essere triplo candidato per premi importanti: la qualità della realizzazione lo rende contemporaneamente potente e delicato, commovente e stimolante. Amin, alla fine, è il simbolo del migrante e i profughi sono tutti meritevoli della stessa attenzione, da qualunque parte del mondo essi provengano. La storia di un profugo omosessuale, poi, è un blend micidiale che ci costringe a fare i conti con tutti i nostri pregiudizi. E alla fine ci sentiamo così vicini a lui da considerare Kabul anche un po’ casa nostra.

 

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