Recensione: "I piedi di Abdullah" - Pagliuzze di oro sinistro Recensione: "I piedi di Abdullah" - Pagliuzze di oro sinistro

Recensione: “I piedi di Abdullah” – Pagliuzze di oro sinistro

Recensione: "I piedi di Abdullah" - Pagliuzze di oro sinistro Recensione: "I piedi di Abdullah" - Pagliuzze di oro sinistroI piedi di Abdullah
di Hafid Bouazza
traduzione di:
Claudia di Palermo e Valentina Freschi
Carbonio Editore

Pagliuzze di oro sinistro, è il secondo dei tre versi di un haiku di Kawabata Bosha.
Lo haiku (俳句 [häikɯ]) è un componimento poetico nato in Giappone nel XVII secolo composto da tre versi.
Un componimento breve, come troppo breve è stato il tempo che ci è stato dato per godere delle pagliuzze d’oro di Bouazza.

Pagliuzze d’oro, bagliori di sole che, parola dopo parola, si insinuano tra la curva delle ciglia, danzano lampeggiando in mille direzioni e svaniscono nell’oscura immagine residua che ci offusca la vista. Perchè quello che riceviamo in cambio, quando osiamo fissare il sole è l’ombreggiatura delle nostre visioni come macchia scura persistente. Una macchia che è qualcosa di vitale, di estremamente resistente, eppure delicato come una piuma d’uccello.

La bellezza barocca della prosa dell’autore infatti, il suo fulgore, lasciano come residuo l’oscura presenza di ciò che narrano. Violenze domestiche e stupri di bambini, depravazioni, meschinità. È l’amore alla longitudine di un’umanità precaria, che vive ai margini, che cerca di rimanere umana anche laddove la spinta alla crudeltà sembra prevalere.

Il tutto vestito di abiti di broccato tintinnanti di campanelli, di burqa fatti cadere ad arte, di lembi di djellaba pronti a sollevarsi quando “Ali babà era pronto ad aprire la grotta con la sua bacchetta magica”, di pesanti vesti da sposa venate di filigrana d’oro e ricoperti di gioielli e anelli d’argento, (“…che il misericordioso Islam vietava di sotterrare vive le ragazze solo per poi seppellirle sotto la stoffa”). E poi di jeans e di maglie attillate delle disinibite donne di Amsterdam.

C’è un essere che vive nel sottosuolo selvaggio di quei vestiti di cui narra Hafid, nel deserto morto del Marocco così come ad Amsterdam con i suoi canali, dove il riflesso di uomini e cose nell’acqua sporca “trasforma tutto in lugubri ombre”.
Una creatura con una natura sensoriale e i suoi cicli naturali e nutritivi. Questo essere curioso è talvolta esigente, talvolta quiescente. Reagisce agli stimoli concernenti i sensi: la musica-il movimento-il cibo-le bevande-la pace-la quiete-la bellezza-l’oscurità. Un essere che possiede il calore, ma non un calore che si esprime in “facciamo del sesso”, quanto piuttosto una sorta di fuoco sotterraneo che talvolta divampa talaltra lentamente scema ciclicamente. Il calore non è uno stato di eccitazione sessuale bensì uno stato di intensa consapevolezza sensoriale, che include la sessualità ma non si limita a questa.

La maestria della parola di Hafid sta nella sua capacità di allentare ciò che è troppo stretto, di bandire la malinconia, di comunicare al corpo un umore che non appartiene all’ intelletto ma al corpo medesimo.

È il corpo che ride, una forma vitale di medicamento che si diffonde attraverso i sistemi endocrino e neurologico del corpo. Ride per le storie di donne chine alle fontane, per gli umori dell’oscenità, per le melanzane e i cetrioli dati in affitto a donne languide, per un imam talmente buono e santo che gli anziani non vedono l’ora di pregare sulla sua tomba, (che Allah li perdoni), per una famiglia in cui tutte le donne si chiamano Fatima e tutti gli uomini Abdullah, per il nugolo di mosche compagne di sudicio del piccolo Abdullah, per i piedi monchi del grande Abdullah che ritornano dalla guerra, bussano alla porta e chiamano forte “mamma, mamma!”.

La prosa di Bouazza è barocca dicevo, è, quello che in portoghese si dice “barroco”: una perla non perfettamente sferica, screziata dall’irregolarità, dalla bizzarria, dalla stranezza, caratterizzata dalla volontà scenografica e magniloquente, dal linguaggio ampolloso e anti-classicista.

La frammentarietà storica dei racconti ripartisce la storia e i ricordi di Bouazza. Quel che abbiamo non è un narrare che procede, ma un processo che si propaga trasversalmente. Il tempo si sgualcisce in mille pieghe barocche.

“Il Barocco produce di continuo pieghe. Non è una novità assoluta: si pensi a tutte le pieghe provenienti dall’Oriente, o alle pieghe greche, romane, romaniche, gotiche, classiche […]. Ma il Barocco curva e ricurva le pieghe, le porta all’infinito, piega su piega, piega nella piega. Il suo tratto distintivo è dato dalla piega che si prolunga all’infinito.” (Deleuze)

La parola di Bouazza è un “yakamoz”. La parola più bella del mondo, che nella lingua turca è capace di assumere valori diversi. Perché la lingua scritta di Bouazza sembra attingere linfa vitale da tutte le lingue del mondo. “Yakamoz” che sta per “il riflesso della luna sull’acqua”, indica anche la composizione di quei microorganismi in grado di formarsi sott’acqua, soprattutto nel Bosforo e che, nelle notti di luna piena, sono capaci di dare uno scintillïo alle piccole onde create dai remi dei pescatori e dal cui riverbero gli istanbuliti sono soliti farsi rapire quando in mare o seduti a riva compiono il cosiddetto alem, “il momento di rilassarsi in compagnia degli amici”.

Son trenta giorni che questo riflesso dorato, ha assunto l’aspetto di pagliuzze di oro sinistro, Il 29 aprile Hafid Bouazza sul suo tappeto volante ha lasciato il mondo dei vivi…

Tra le pagine del suo libro il sacro e l’irriverente, il sacro e il sessuale continuano a vivere con i suoi personaggi. Per Hafid è il momento di rilassarsi in loro compagnia. Li immagino lì che aspettano per accompagnarlo nel suo ultimo viaggio volante e, in attesa del suo passaggio, intanto si raccontano le sue storie e ridono come matti.

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