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Recensione: Il diavolo – Un collaboratore di Cristo?

Recensione: Il diavolo - Un collaboratore di Cristo? Recensione: Il diavolo - Un collaboratore di Cristo?“Il diavolo”
di Giovanni Papini
a cura di Luca Scarlini
Edizioni Clichy

Per entrare nel merito di questa insolita proposta editoriale, vale la pena di prenderla alla larga.
Intanto, l’editore. Edizioni Clichy è una giovane (2012) casa editrice indipendente fiorentina, che tiene a dirsi caratterizzata da una forte identificazione nelle scelte dei testi e della tipologia dei libri.
Una dichiarata francofilia dell’ideatore della Clichy ha influito sulla scelta dei nomi delle varie sezioni/collane alle quali vengono assegnati i libri: “Gare du Nord”, “Rive Gauche”, “Père Lachaise”, “Sorbonne”, eccetera.
E poiché Il Diavolo di Giovanni Papini è l’ultimo testo pubblicato nella collana “Père Lachaise”, va ricordato che il Père Lachiase è il cimitero, parigino, forse più famoso al mondo, meta di un incessante e affollato pellegrinaggio di visitatori perché vi riposano le spoglie di giganti come Apollinaire, Balzac, Modigliani, Oscar Wilde, Edith Piaf, Gertrude Stein, Colette, Yves Montand, Gilbert Bécaud, Maria Callas, Jim Morrison, tanto per citarne alcuni.

Il Père Lachaise, dunque, è (cito dalla seconda di copertina del libro) “luogo di memoria storica e culturale, monumentale, di culto anche pagano, di scoperta delle proprie radici”. La collana, dunque, si propone l’obiettivo di pubblicare autori fondamentali, magari meno noti ma rilevanti, con “scritti inediti o testi da lungo tempo introvabili”. E Il Diavolo di Giovanni Papini appartiene di diritto ai testi “da lungo tempo introvabili”, sicuramente dimenticati. D’altronde, lo stesso Papini può dirsi appartenente alla schiera – ahimé non esigua – degli autori italiani relegati nel dimenticatoio. Forse perché poco moderno, forse perché scomodo.

Scrittore, poeta, saggista, critico letterario, fiorentino doc, fondatore di riviste letterarie che hanno segnato il ‘900 (Leonardo, Lacerba, La Voce), Giovanni Papini (1881 – 1956) è stato uno dei più importanti e controversi intellettuali della prima metà dei secolo scorso.
Ma la sua figura è stata, dopo la fine della seconda guerra mondiale, rimossa dai piani alti della cultura nazionale molto probabilmente a causa delle sue scelte ideologiche: acceso interventista e bellicista nel 1915, abbracciò poi il fascismo (ma non il nazismo) e fu tra i firmatari del Manifesto della razza del 1938 (anche se poi ripudiò il razzismo).
E la sua indomita vocazione di polemista indipendente non ha mancato di metterlo nei guai anche nel suo rapporto con la Chiesa. Convertitosi dall’ateismo al cattolicesimo nel 1921, la sua religiosità fu tanto sincera e ardente da portarlo a divenire terziario francescano e a vivere a lungo ospite di un convento.
Ma fu proprio Il Diavolo, scritto nel 1950 e pubblicato nel 1953, ad attirargli le critiche delle gerarchie ecclesiastiche e della stampa cattolica (si dice che un libraio romano avesse gettato nel Tevere tutte le quaranta copie che aveva ricevuto dall’editore).
Diviso in quattordici sezioni e ottantacinque capitoletti, Il Diavolo è un trattatello proprio sul Demonio, l’Angelo disobbediente caduto in disgrazia.
Ed è un trattato convinto e documentato, con il quale Papini, da una posizione di fervido credente, offre al lettore (sono parole sue) degli “appunti per una futura diabologia”. Sono numerosi e puntuali i riferimenti a testi biblici (dagli Atti degli Apostoli alle Lettere di San Paolo), nonché a teologi e filosofi dell’antichità (da Origene a Sant’Agostino), con il conforto dei quali Papini vuole conferire solidità e credibilità alla propria tesi. Che è quella di una sorta di riabilitazione del Demonio, l’Angelo Tentatore condannato da Dio e precipitato nell’abisso degli Inferi per scontare una dannazione eterna.
Sta proprio qui l’originalità della tesi di Papini, che gli ha meritato l’ostracismo da parte dei vertici della Chiesa cattolica. Con una prosa accattivante e arguta, l’ostinato polemista de La Voce sostiene, Sacre Scritture alla mano, che l’onnipotenza e l’infinita capacità di amare di Dio non può – anzi, non deve – escludere che alla fine dei tempi l’Angelo Tentatore venga perdonato e riammesso a sedere alla destra del Padre.
Di più. Papini si spinge ben oltre i confini della dottrina della Chiesa, per giungere a definire Satana come una sorta di “agente di Dio, riconosciuto da Dio: qualcosa di simile a un investigatore e a un pubblico accusatore. Si direbbe, quasi un “procuratore del Re del Cielo”.
Di più, di più. Nei quattro deliziosi capitoletti dedicati alle tre tentazioni subite da Gesù da parte del Diavolo durante i quaranta giorni della sua permanenza solitaria nel deserto,
Papini, con sconcertante candore e basandosi sulla lettera dei Vangeli, non esita a dirsi convinto che “Gesù non volle respingere il Diavolo, Gesù sopportò e tollerò le ripetute tentazioni del Nemico, Gesù accettò nella solitudine una sola e unica compagnia: quella del Diavolo”. Addirittura: “Gesù si era recato nel deserto proprio per quello scopo, proprio per sottoporsi a quella prova (…) Il Diavolo appare, sotto questo aspetto, un collaboratore di Cristo”.
Per questa tesi azzardata e fascinosa, il libello di Papini richiama senz’altro “Giuda”, l’ultimo splendido romanzo di Amos Oz, nel quale lo scrittore israeliano abbraccia la tesi che con il suo tradimento Giuda non abbia fatto altro che eseguire un ordine impartito da Gesù per portare a termine il disegno di salvezza dell’umanità.
Ma tutto l’impianto logico e teoretico con cui Papini disegna il Male come interfaccia del Bene, come strumento necessario alla stessa affermazione e supremazia del Bene, può, per qualche verso, rimandarci anche a “La banalità del male”, il libro scritto da Hannah Arendt dopo e sopra il processo di Gerusalemme ad Adolf Eichmann, a causa del quale la Arendt fu letteralmente sommersa da una gigantesca ondata di fango da parte dell’intera comunità ebraica.
Papini, ai tempi della pubblicazione del suo Diavolo, se la cavò con qualche scappellotto da parte della gerarchia ecclesiastica e oggi il suo arguto trattatello non scandalizza, al contrario può ancora stimolare (atei compresi) alcune riflessioni sul rapporto tra bene e male.

Ma se Il Diavolo lo avesse scritto ai tempi dell’Inquisizione?
C’è da scommettere che sarebbe stato sottoposto come minimo a tortura ad abiurandum.

E, conoscendo il tipo, c’è da scommettere anche che non avrebbe abiurato per tutto l’oro del mondo.

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