la caotica scrivania di Lorenza - Salviamo la Venere «influencer»: ha bisogno del nostro aiuto Salviamo la Venere «influencer»: ha bisogno del nostro aiuto
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la caotica scrivania di Lorenza – Salviamo la Venere «influencer»: ha bisogno del nostro aiuto

la caotica scrivania di Lorenza - Salviamo la Venere «influencer»: ha bisogno del nostro aiuto

Con questo articolo sulla Venere Influencer diamo il via alla rubrica: La caotica scrivania di Lorenza.
Una scrivania affollata di appunti e note a margine, zeppa di notizie e chicche da scoprire e approfondire.
Diamo il benvenuto nella nostra Redazione a Lorenza Boninu, la cui scrivania è un piacevole non-luogo dove perdersi e ritrovarsi.
Buona Lettura dalla Redazione di Puntozip!

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Salviamo la Venere «influencer»: ha bisogno del nostro aiuto

Conoscete Lil Miquela? Con due milioni e ottocentomila followers su Instagram e tre milioni e seicentomila su TikTok, Miquela Sousa, in arte «Lil Miquela» è attualmente fra le influencer più celebrate. Eppure, questa graziosa fanciulla californiana, che ha avuto il talento e la fortuna di collaborare con marchi prestigiosi come Calvin Klein, Balenciaga, Chanel, che può considerarsi un’icona di stile, che ha cercato di sfondare sul mercato discografico (cercatela su Spotify), che condivide scatti con personaggi famosi dello showbiz, che vanta anche una spiccata sensibilità sociale (per esempio appoggiando il movimento #blacklivesmatter), non esiste: è una virtual influencer. Non propriamente un’intelligenza artificiale (dietro al progetto c’è un intero team di creativi che si occupa dei testi, del posizionamento nei social, della carriera musicale), non esattamente un robot, piuttosto una creazione della motion graphic: comunque affascinante, coinvolgente, inquietante. E se il suo clamoroso esordio nei social risale al 2016, oggi non è più sola: la società che ha implementato il progetto e lo gestisce, la start-up californiana Brud, le ha affiancato altri due influencer non in carne ed ossa, ma figli del computer, Blawko e Bermuda.

Davanti a esperimenti come Lil Miquela, operativi già da tempo, apripista di un’evoluzione rapida, inarrestabile e (diciamolo pure) discutibile delle strategie di marketing, la Venere Influencer che, secondo le brillanti idee del nostro Ministero del Turismo e del Gruppo Armando Testa, dovrebbe pubblicizzare il nostro Paese nel mondo, fa quasi tenerezza, nella sua dilettantistica naïvité. Le numerose criticità dell’ormai famosa (o famigerata?) campagna sono state abbondantemente sviscerate da esperti più competenti di me (si veda, fra tutti, l’ottima sintesi di Matteo Flora): dalla mancata registrazione del dominio al video spot creato con riprese stock girate in Slovenia, dalle immagini a bassa risoluzione con estensione whatsapp ai followers fake presumibilmente acquistati da servizi terzi, fino alle bizzarre traduzioni dei nomi di città sul sito italia.it (Prato che diventa Rasen, Brindisi trasformata in Toast… per dire).
E l’Agenzia Armando Testa ha risposto, con una toppa che a molti è apparsa peggiore del buco: ha ironicamente ringraziato del “dibattito culturale” che la controversa campagna avrebbe acceso… ma quale dibattito? Più che altro un generale imbarazzo e una gigantesca presa per i fondelli, tracimata anche all’estero (ne hanno parlato, fra gli altri, Reuters, CNN, The Guardian, BDNews etc); ha ribadito l’abusato concetto “parlatene pure male, basta che ne parliate”, che forse, nell’era dei social, dove è facilissimo distruggere una reputazione a colpi di meme (quelli sì, virali), non funziona più così bene; ha praticamente deriso il pubblico (lo ha definito sarcasticamente «un immenso reparto creativo di milioni di persone al lavoro sullo stesso concetto», come dire, i soliti italiani tutti laureati in virologia, tutti arbitri di calcio e ora tutti esperti di pubblicità), certo profano e non addentro ai misteri della comunicazione pubblicitaria, quindi colpevole di non aver compreso che il video e tutto il resto, sia pure presentati in pompa magna con tanto di conferenza stampa, non rappresentavano l’output definitivo del progetto, ma solo una sua bozza provvisoria (eppure, una comunicazione così universalmente fraintesa non è forse cattiva comunicazione?); e ricordando (questo sì, a ragione) che i nove milioni di euro stanziati da Enit non sono andati nelle casse dell’Agenzia Armando Testa, ma sono destinati all’implementazione della campagna e alla pianificazione media nei più importanti mercati mondiali di riferimento.

Tutto questo è risaputo, inutile ribadirlo. Vorrei però condividere la mia prima impressione, quella che ho avuto senza aver letto ancora le decine di critiche, battute, discussioni che «Open to Meraviglia» ha poi generato: davanti alla faccia della botticelliana Venere photoshoppata malamente su un corpo femminile qualunque, ho pensato di trovarmi davanti all’essenza stessa del «cringe». «Cringe», per chi non fosse addentro al gergo internettiano, significa, più o meno, «imbarazzante»: ma c’è una sfumatura in più, difficile da tradurre in italiano con una sola parola. «Cringe» è qualcosa che suscita un sentimento di disagio, perché, in fondo in fondo, voleva essere serio, ma non ne è stato capace. Esempi di «cringe»: la scena non riuscita di un film, la barzelletta che non fa ridere, il boomer che vuole fare il ragazzino… la Venere di Botticelli con il trancio di pizza in mano. Non a caso ho citato il boomer: perché non c’è nulla di più «cringe» del boomer che crede di fare qualcosa di straordinariamente innovativo in Rete, ma non padroneggia il mezzo, il codice, il linguaggio, e resta tenacemente attaccato agli stereotipi e alla banalità. E lo dico da boomer non esente da questo difetto. Potrei dire: non temo il «cringe» fuori di me, temo il «cringe» in me», e forse per questo l’ho subito annusato nella stessa impostazione della campagna «Open to Meraviglia». Fosse stata anche esente da tutti i difetti che le sono stati imputati, sarebbe stata comunque vecchia, scontata, bolsa.

Sì, è vero, come qualcuno ha osservato, che l’immagine dell’Italia all’estero è legata per lo più al Colosseo, alle gondole, al binomio pizza-mandolino, alla Torre di Pisa. Ma, proprio per questo, non sarebbe preferibile puntare a qualcosa di diverso, davvero «aperto alla meraviglia»? Altrimenti, tanto varrebbe rinunciare alla creatività umana e affidarsi direttamente a ChatGPT e Midjourney (rischio reale, se si continua su questa china di prevedibilità). E ancora. Quale tipo di turismo si vuole intercettare? Si vogliono davvero indirizzare i potenziali visitatori verso le solite mete affollate e, ammettiamolo, piuttosto invivibili, o si potrebbe pensare, per una volta, a valorizzare le tante bellezze misconosciute che arricchiscono di fascino la nostra penisola? Giocare sulla sorpresa, la novità, la freschezza di una proposta inattesa? Insomma, va bene la Venere di Botticelli, ma sappiamo tutti che non esiste solo la Venere di Botticelli. E quindi, sì, si poteva immaginare forse un’immagine di influencer, per quanto virtuale, meno scontata. In breve, meno cringe.

Instagram e TikTok pullulano di micro-influencer, creator e divulgatori (dotati peraltro di un seguito reale, non popolato da account fake) che condividono belle foto e reel accattivanti e divertenti in grado di illustrare nello spazio di due minuti mete insolite, bellezze talvolta ignorate dagli stessi nostri connazionali, paesaggi imprevisti e luoghi alternativi ai consueti itinerari turistici. Meglio sarebbe stato arruolare qualcuno di loro, piuttosto che affidarsi ad un’inesperta Venere: dopotutto, non è così giovane, e forse ha qualche difficoltà nell’adeguarsi agli stilemi comunicativi dei social.
Va detto che italia.it, account instagram ufficiale per il turismo in Italia, si muove nell’ottica di un’intelligente condivisione di contenuti di qualità prodotti da altri, mentre, dispiace per lei e per il suo papà Botticelli, la povera @venereitalia23 ancora non sa bene come muoversi (senza contare le parodie nelle quali viene taggata). Vedremo che cosa accadrà di questa controversa campagna in futuro: se sarà in grado di riprendersi dai colpi quasi ferali che si è autoinflitta, per fretta, dilettantismo, superficialità, oppure se affonderà inesorabilmente nel gorgo di ridicolo nel quale si è cacciata.

Ci sarebbe da aggiungere molto altro: per esempio, che anche la pubblicità più riuscita alla lunga cede davanti alla sfida della realtà. E che promuovere il turismo in Italia significherebbe in primo luogo investire in servizi ed accoglienza, senza contare l’educazione, l’onestà, la cultura degli operatori e, vorrei aggiungere, dei semplici cittadini. Non solo «immagine», ma autentica cura, senso di responsabilità e valorizzazione reale del patrimonio che ci è stato affidato dalla storia e dalla natura. Vogliamo citare il danno globale alla reputazione dell’Italia che hanno causato le tre sciagurate pulzelle riprese e offerte alla globale indignazione, ahimè, da una vera influencer con largo seguito su TikTok, mentre sbeffeggiavano con risatine e battute razziste la madre sino-americana del suo ragazzo sul treno fra Como e Milano?

Ma questa è un’altra storia, e ci riguarda tutti. Alla fine, i migliori testimonial dell’Italia dovremmo essere noi, nessuno escluso.

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