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Recensione: Mio amato Belzebù – Non ci furono applausi…

Recensione: Mio amato Belzebù - Non ci furono applausi... Recensione: Mio amato Belzebù - Non ci furono applausi...Mio amato Belzebù
di Chiara Rapaccini
Giunti editore

Chiara Rapaccini – in arte RAP – è una nota e brava designer, illustratrice e autrice di libri per l’infanzia. E non solo. Già collaboratrice di testate giornalistiche nazionali, quali Il Corriere della Sera e La Repubblica, ha realizzato documentari per la televisione ed è nota per le fortunate vignette di “Amori sfigati”, pubblicate settimanalmente in e-book dalla rivista L’Espresso. Vanta anche un incontro con Elio e le Storie Tese, sfociato nella pubblicazione di “Animali spiaccicati” (Einaudi Stile libero – 2004).

Artista poliedrica ed effervescente, dunque, dotata di un palmarès di tutto rispetto. Ma insufficiente a introdurci alla lettura di Mio amato Belzebù. Vanno infatti aggiunti due dati biografici che ritengo essenziali. Il primo: Chiara Rapaccini è nata a Firenze e a Firenze ha trascorso l’infanzia e l’adolescenza, nutrendosi pertanto negli anni della crescita degli umori culturali e spirituali della città medicea. Il secondo e forse più importante: Chiara Rapaccini è nata nel 1954.
Perché sono dati essenziali? Perché a Firenze, nell’inverno del 1975, la ragazzina ventenne Chiara Rapaccini, reclutata da Carlo Vanzina come comparsa generica, conosce sul set del film Amici miei il regista Mario Monicelli. Per essere più esatti: è il regista Mario Monicelli che nota quella spaurita giovanissima comparsa generica e la invita a cena. Una cena che per i due sarà galeotta, nel senso dantesco del termine. Inizia infatti una relazione sentimentale che durerà oltre trent’anni – sino cioè alla morte del regista – fra una giovane donna di appena vent’anni e un uomo che di anni ne ha sessanta e potrebbe essere suo padre. E un padre attempatello.
Ma Firenze non è importante perché è sul set fiorentino di Amici miei che sboccia quel così poco ortodosso (anagraficamente parlando) legame sentimentale. No. Firenze è importante perché per tutta la lunga durata di quella relazione Chiara Rapaccini, trasferitasi a Roma nel 1979 per essere vicina al suo amato Mario, non perderà mai occasione per mettere a confronto il caotico cosmopolitismo dell’Urbe con la sua provinciale e intima Firenze, che al confronto assume le misure domestiche di un villaggio e alla nostalgia della quale Chiara non saprà mai sottrarsi.

E i richiami nostalgico affettivi alla sua Firenze costituiscono un costante leit motiv che accompagna per tutta la sua durata l’affettuosa narrazione della Rapaccini.
Affettuosa, certo. E anche pungente. Perché nel libro l’autrice ripercorre in un lento memoir il lungo percorso della sua vita accanto al suo amato Belzebù con un contagioso affetto ma anche con lucido spirito critico. Non sono pochi i capitoli del diario-romanzo che si concludono con un secco “Che ci faccio qui”. E il qui è la Roma di quelli che chiama i cinematografari. Che è poi la vita descritta da Fellini ne La Dolce Vita, gente che conta e che si sente legittimata dal suo status culturale a chiudersi in un gotha elitario tra il dissoluto e il dissacrante e come tale si offre all’adorazione dei fans. Ma è anche gente nella quale la “provinciale” fiorentina Rapaccini non esita a riconoscere doti umane di altri e irripetibili tempi. “Assisto impotente al lento dissolversi della Dolce Vita, impercettibile, lentissima. I suoi eroi pian piano lasciano il posto ai giovani cineasti rampanti che sono egocentrici, competitivi, narcisi, cupi. Poco inclini all’ironia, all’amicizia solidale, all’utopia, ai valori socialisti dei loro padri”. Già. Se per caso ce lo fossimo dimenticato,

Chiara Rapaccini ci ricorda che il suo amato Belzebù le riassumeva tutte, quelle oggi perdute qualità, ne era un indiscusso campione. E i suoi film lo dimostrano inequivocabilmente, cominciando dall’ormai lontanissimo (1951) – e purtroppo completamente seppellito negli archivi delle cineteche – “Guardie e ladri”, nel quale il ladro Totò, mosso da pietas umana, si lascia catturare dalla maldestra guardia Aldo Fabrizi e si fa accompagnare in galera facendo credere alle rispettive famiglie che i due si allontanano per una semplice passeggiata. Altri tempi, altri sentimenti, altri valori.

Sono tanti gli spunti di riflessione sollecitati dalla lettura del bel libro della Rapaccini.
Naturalmente, e per tutto il racconto, a farla da padrona è l’enorme differenza di età tra i due, tra Chiara e il suo amato Mario. È un punto interrogativo costante, che la Rapaccini pone davanti a sé e analizza in continuazione. E al quale spesso non sa e non vuole dare risposte. Anche quello fa parte del che ci faccio qui con cui chiude molti capitoli del suo memoir.
E siccome io su come e perché le persone si uniscono per amarsi non ho mai nulla da dire o da ficcarci il naso, lascio ad altri cimentarsi sulla questione attraverso l’affettuosa testimonianza della Rapaccini. Che, sul punto, è lucida, critica, sincera, fa un coraggioso outing.
A me la lettura di Mio amato Belzebù è servita soprattutto per confermarmi – perdonatemi se mi sbilancio, so che non dovrei farlo – che Monicelli è stato il gigante più gigante di tutti i registi giganti della commedia all’italiana. Tralasciando tutto quel formidabile po’ po’ che sta in mezzo (quisquilie come I soliti ignoti, La grande guerra, Amici miei, L’armata Brancaleone), basta citare l’inizio (Guardie e ladri, che ho celebrato sopra) e la fine: Le rose del deserto, girato a novantuno anni suonati e affrontando per mesi – come ci fa notare la Rapaccini – il caldo diurno insopportabile e il freddo notturno altrettanto duro del deserto su un set arrangiato e improntato al risparmio di mezzi.

Ed è proprio nell’ultimo film girato da Monicelli che ho rinvenuto un inequivocabile richiamo alla sua filosofia del vivere e del morire. Mi riferisco alla scena in cui il maggiore medico Stefano Strucchi (Alessandro Haber) tenta invano di suicidarsi percorrendo in lungo e in largo con il sidecar un campo minato. Quel gesto Monicelli lo avrebbe compiuto quattro anni dopo, gettandosi da una finestra del quinto piano dell’ospedale in cui era ricoverato. Con successo, a differenza del maggiore Strucchi.
Al suo funerale, scrive la Rapaccini, “non ci furono applausi se Dio vuole, Mario detestava gli applausi che accoglievano i defunti davanti ai sagrati delle chiese. -Che volgarità,- diceva -sembra di essere a Sanremo-”.

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