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Recensione: Elogio del fallimento. Quattro lezioni di umiltà

Recensione: Elogio del fallimento. Quattro lezioni di umiltà Recensione: Elogio del fallimento. Quattro lezioni di umiltàElogio del fallimento
Quattro lezioni di umiltà
di Costica Bradatan
tradotto da Olimpia Ellero
Il Saggiatore Editore

Sgombriamo subito il campo da un equivoco cui può indurre il titolo del libro di Costica Bradatan (1971), filosofo statunitense ma romeno di nascita, docente di Studi umanistici alla Texas Tech University di Lubbock: Elogio del fallimento non è un saggio appartenente al campo delle scienze economiche, bensì (come chiarisce il sottotitolo dell’edizione italiana) un’apologia, una strenua e appassionante difesa di una virtù umana oggi ampiamente e bellamente snobbata: l’umiltà.
La tesi di fondo di Bradatan si può così riassumere: fallire è fondamentale per la nostra natura di esseri umani. E il fallimento, la consapevolezza del nostro fallimento (che è consapevolezza dei limiti congeniti alla nostra natura di esseri umani) può, se ben utilizzata, divenire terapia. La terapia giusta per prendere le misure con la finitezza della vita, per salvarsi (sì, proprio salvarsi) dall’inganno dei miti della competizione e del successo nei quali il Grande Fratello che regge le redini del mondo postmoderno e capitalistico ci sta da decenni allevando, manipolando e soggiogando.
Nei quattro capitoli che compongono il libro, Bradatan esplora rispettivamente i quatto ambiti (li definisce dantescamente gironi) nei quali si manifesta e assume diverse sembianze il fallimento: quello, più esterno, fisico (noi e le cose in mezzo alle quali viviamo); quello politico (noi e il governo della polis); quello sociale (noi e gli altri, la società); e infine quello più ristretto e intimo: il fallimento biologico, legato al nostro status di esseri mortali, preceduti e seguiti dalla non esistenza.

E nel prologo Bradatan ci avvisa che il suo libro “si basa su una definizione in evoluzione – anzi, in espansione – del concetto di fallimento”. Precisazione molto utile per comprendere l’intero libro e condividerne le tesi. Fa bene Bradatan a espandere il concetto di fallimento ben oltre gli angusti limiti (del tutto negativi) entro i quali è solitamente relegato. Perché – è una nostra personalissima riflessione, alla quale ci sentiamo legittimati dal filosofo romeno – nel linguaggio di oggi e di tutti i giorni l’accezione figurata della parola fallimento ha preso il pieno sopravvento, esautorandone il neutrale significato tecnico-giuridico. Oggi, con l’aggettivo fallito siamo soliti indicare (e socialmente condannare) una persona incapace, sconfitta, meritevole di sparire dal palcoscenico politico o dall’arena sociale. Un significato, dunque, non solo negativo ma anche e soprattutto carico di disprezzo o quanto meno di disistima. È tanto vero ciò, che lo stesso legislatore italiano ha ritenuto troppo offensivo per il mondo dell’imprenditoria il termine “fallimento” e, in una recente riforma in materia, l’ha abrogato e sostituito con la definizione meno brutale di “liquidazione giudiziale”.

Bradatan, dunque, rema coraggiosamente controcorrente e assegna alla parola “fallimento” un significato assai lato e soprattutto positivo, come “qualsiasi esperienza di sconnessione, rottura o sofferenza, provata nell’ambito delle nostre interazioni codificate con il mondo e con gli altri, ogni volta che qualcosa smette di essere, operare, avvenire come ci aspettavamo”.
L’inevitabile fallimento, o meglio la consapevolezza dell’inevitabile fallimento ci salverà. Da che cosa? Dalle fallaci lusinghe del successo, dalle sirene ingannatrici del “ce la farai, sarai il migliore” che ci fanno l’occhiolino ad ogni angolo della nostra vita mortale.
Non angustiatevi se letteralmente vi sentite “fuori luogo”, ci conforta Bradatan, anzi traetene profitto per poter osservare “il luogo” con occhio più disincantato, obiettivo. Nel corso della sua appassionata difesa delle proprietà terapeutiche del fallimento (nell’accezione “espansa” e positiva che abbiamo maldestramente tentato di sintetizzare), il nostro coraggioso filosofo romeno ci accompagna attraverso una galleria di personaggi, che chiama a testimoniare, o meglio a certificare, la bontà delle sue tesi. Socrate, Seneca, Georges Orwell, Simone Weil, il Mahatma Gandhi, Albert Camus, Emil Cioran, per citarne alcuni. Tutti accomunati dalla consapevolezza della propria “finitezza” e dalla confidenza con la morte, la Grande Mietitrice.

E Bradatan, simpaticamente, non poteva dimenticare il principe dei Vagabondi, il prototipo del Fallito, vale a dire Charlot di Tempi Moderni che tutti (almeno così speriamo) conosciamo. Charlot è “il ritratto sociale del perdente”, che “incarna le peggiori paure e angosce della società”. Charlot “è l’ombra della società …impersona tutto ciò che rifiutiamo di ammettere a noi stessi, che riteniamo vergognoso e spregevole, e non riconosciamo come nostro”. “Magari sarà anche senza lavoro”, riflette Bradatan, “ma ha il compito più difficile di tutti: evitare che altri membri della società perdano l’orientamento. Non stupisce il fatto che” conclude “quando viene informato che sarà scarcerato prima del previsto, preferisca rimanere dietro alle sbarre. “Non potrei rimanere un altro po’?” chiede. “Sto così bene qui”.”

E, come Charlot di Tempi Moderni, anche noi, approssimandoci all’ultima pagina di questo appassionato e utopico trattato in difesa dell’umiltà, ci siamo sentiti dire: “Non potremmo rimanere ancora un po’ in questo libro? Stiamo così bene qui, al riparo dall’impetuoso turbinio della competizione sociale, dalle false lusinghe del quotidiano tù sì que vales!”.

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