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Recensione: Il figlio del fisarmonicista – La magia delle parole sepolte

Recensione: Il figlio del fisarmonicista - La magia delle parole sepolte Fu ai tempi della scuola che David divenne “il figlio del fisarmonicista”. Era il primo giorno di lezione nella scuola di Obaba. La nuova maestra passava di banco in banco col registro degli alunni in mano. “E tu? Come ti chiami?” chiese quando mi si avvicinò. “José”, risposi, “ma tutti mi chiamano Joseba”. “Molto bene”. La maestra si rivolse al mio compagno di banco, l’ultimo a cui doveva ancora chiedere “E tu? Qual è il tuo nome?” Il ragazzo rispose imitando il mio modo di parlare “Io sono David, ma tutti mi chiamano il figlio del fisarmonicista”. Per esser più precisi, il figlio del fisarmonicista di Obaba, mitica cittadina dei Paesi Baschi. Sono passati tanti anni e tanti ancora, Joseba si reca in California per il funerale di David. Lì riceve da Mary Ann, la vedova di David, un taccuino di ricordi in lingua basca scritto dall’amico. Scrivere in basco era testimonianza di vita e identità di un popolo orgoglioso, testimonianza di una lingua sempre meno parlata, ma per questo ancora più preziosa. Scrivere in basco per David era lasciare in eredità profonde radici alle sue due amate figlie, Liz e Sara. Del taccuino esistevano 5 copie, Joseba, rispettando la volontà testamentaria dell’amico, porterà con sé ad Obaba dove ancora vive, una delle cinque copie per consegnarla alla biblioteca della cittadina. Prima però ha cura di tradurre le memorie dell’amico in castigliano e di integrare alcuni ricordi comuni, perché nulla vada perso, perché tutto possa essere seme e concime. Come seme e concime diventa tutto ciò che viene sotterrato, perché quando sotterri qualcosa con un rituale condiviso, non lo stai occultando, ma gli stai dando una nuova potente e invisibile vita. Così accade agli uomini e così accade alle parole basche che per gioco David seppellisce in giardino con le figlie in scatole di fiammiferi. Seppellire parole per ricordarle in eterno, così come si ricordano gli affetti defunti. Un gesto potente e antico vissuto nell’innocenza del gioco, che racchiude tutta l’essenza di questo incredibile libro: il dono del ricordo, delle origini, dell’appartenenza. Appartenenza che significa anche parlare e capire una lingua che si sta dissolvendo pian piano… Dove sono ora i 100 modi per dire farfalla? Si chiederà per tutta la vita David malinconico. I contadini di Obaba guardavano le farfalle che si muovevano qui e là e non dubitavano mai sui loro nomi: questa mitxirrica, txoleta, inguma, nomi che potevano sembrare privi di senso a chi stava dimenticando il basco. Le parole basche del taccuino di David brillano come stelle nella notte dell’oblio, sono lì a ricordarci di ricordare… La memoria prende vita e racconta degli anni sessanta ad Obaba, del regime franchista, sulle vicende che hanno riguardato il separatismo basco, la democrazia e il terrorismo dell’ETA, della gioventù che solleva veli e scopre gli orrori fascisti e le fucilazioni e le mani sporche di sangue dei propri familiari, dei propri padri… Così David nel quaderno del gorilla trova nomi e elenchi di vittime e carnefici che si muovono nel passato… Un passato doloroso da cui lui stesso discende, un passato che inizia ad abitare i suoi incubi notturni. Ma non possiamo cambiare neppure una virgola del nostro passato, nè cancellare i danni che ci inflitti dai nostri padri. Possiamo però cambiare noi stessi, "riparare i guasti", riacquisire la nostra integrità perduta. Possiamo fare questo nel momento in cui decidiamo di capire, riguardare gli eventi passati memorizzati nel nostro corpo, per accostarli alla nostra coscienza. Si tratta indubbiamente di una strada difficile, ma è l'unica che ci dia la possibilità di trasformarci, da vittime inconsapevoli del passato, in individui responsabili che conoscono la propria storia e hanno imparato a vivere con essa. Ed è proprio come la differenza tra spago e corda che tanti anni fa gli spiegò l’uomo che ad Obaba si guadagnava da vivere vendendo polizze assicurative antincendio. Portava con sé una corda lunga quasi un metro, la corda era il suo arnese per ricordare le cose, in essa erano infilate una serie di piccoli oggetti che l’uomo faceva scorrere tra le mani come un rosario: un pezzo di carbone, un bastoncino bruciato, delle monete, delle farfalle. Ogni volta che le sue dita incontravano un oggetto, si accendeva in lui un ricordo. Quella corda l’uomo la regalò a David. Si potrebbe pensare che a partire da quel giorno David tenne sempre con sé la corda, ma come sempre accade i “fatti non sono mai all'altezza delle idee o delle promesse”. La verità è che la corda finì nel comodino della sua camera per anni e gli tornò in mente solo quando iniziò a scrivere il suo libro e decise di applicare quel modo di ricordare alla sua penna, sarebbe andato da un tema all'altro proprio come le dita dell'agente di assicurazioni andavano dal pezzo di carbone, al bastoncino bruciato, alle monete, alle farfalle. “conserva la corda. Un giorno ti sarà utile - mi disse quell'uomo. La sua profezia si sarebbe avverata”.Il figlio del fisarmonicista
di Bernardo Atxaga
Traduzione di Paola Tomasinelli
21lettere edizioni

Fu ai tempi della scuola che David divenne “il figlio del fisarmonicista”.

Era il primo giorno di lezione nella scuola di Obaba. La nuova maestra passava di banco in banco col registro degli alunni in mano. “E tu? Come ti chiami?” chiese quando mi si avvicinò. “José”, risposi, “ma tutti mi chiamano Joseba”. “Molto bene”. La maestra si rivolse al mio compagno di banco, l’ultimo a cui doveva ancora chiedere “E tu? Qual è il tuo nome?” Il ragazzo rispose imitando il mio modo di parlare “Io sono David, ma tutti mi chiamano il figlio del fisarmonicista”.

Per esser più precisi, il figlio del fisarmonicista di Obaba, mitica cittadina dei Paesi Baschi.
Sono passati tanti anni e tanti ancora, Joseba si reca in California per il funerale di David. Lì riceve da Mary Ann, la vedova di David, un taccuino di ricordi in lingua basca scritto dall’amico. Scrivere in basco era testimonianza di vita e identità di un popolo orgoglioso, testimonianza di una lingua sempre meno parlata, ma per questo ancora più preziosa. Scrivere in basco per David era lasciare in eredità profonde radici alle sue due amate figlie, Liz e Sara.

Del taccuino esistevano 3 copie, Joseba, rispettando la volontà testamentaria dell’amico, porterà con sé ad Obaba dove ancora vive, una delle tre copie per consegnarla alla biblioteca della cittadina.
Prima però ha cura di tradurre le memorie dell’amico in castigliano e di integrare alcuni ricordi comuni, perché nulla vada perso, perché tutto possa essere seme e concime.

Come seme e concime diventa tutto ciò che viene sotterrato, perché quando sotterri qualcosa con un rituale condiviso, non lo stai occultando, ma gli stai dando una nuova potente e invisibile vita. Così accade agli uomini e così accade alle parole basche che per gioco David seppellisce in giardino con le figlie in scatole di fiammiferi. Seppellire parole per ricordarle in eterno, così come si ricordano gli affetti defunti.

Un gesto potente e antico vissuto nell’innocenza del gioco, che racchiude tutta l’essenza di questo incredibile libro: il dono del ricordo, delle origini, dell’appartenenza.
Appartenenza che significa anche parlare e capire una lingua che si sta dissolvendo pian piano…

Dove sono ora i 100 modi per dire farfalla? Si chiederà per tutta la vita David malinconico.
I contadini di Obaba guardavano le farfalle che si muovevano qui e là e non dubitavano mai sui loro nomi: questa mitxirrica, txoleta, inguma, nomi che potevano sembrare privi di senso a chi stava dimenticando il basco.

Le parole basche del taccuino di David brillano come stelle nella notte dell’oblio, sono lì a ricordarci di ricordare… La memoria prende vita e racconta degli anni sessanta ad Obaba, del regime franchista, delle vicende che hanno riguardato il separatismo basco, la democrazia e il terrorismo dell’ETA, della gioventù che solleva veli e scopre gli orrori fascisti e le fucilazioni e le mani sporche di sangue dei propri familiari, dei propri padri… Così David nel “quaderno del gorilla” trova nomi e elenchi di vittime e carnefici che si muovono nel passato…

Un passato doloroso da cui lui stesso discende, un passato che inizia ad abitare i suoi incubi notturni.
Ma non possiamo cambiare neppure una virgola del nostro passato, nè cancellare i danni inflitti dai nostri padri. Possiamo però cambiare noi stessi, “riparare i guasti”, riacquisire la nostra integrità perduta. Possiamo fare questo nel momento in cui decidiamo di capire, riguardare gli eventi passati memorizzati nel nostro corpo, per accostarli alla nostra coscienza. Si tratta indubbiamente di una strada difficile, ma è l’unica che ci dia la possibilità di trasformarci, da vittime inconsapevoli del passato, in individui responsabili che conoscono la propria storia e hanno imparato a vivere con essa.

Ed è proprio come la differenza tra spago e corda che tanti anni fa gli spiegò l’uomo che ad Obaba si guadagnava da vivere vendendo polizze assicurative antincendio.
Portava con sé una corda lunga quasi un metro, la corda era il suo arnese per ricordare le cose, in essa erano infilate una serie di piccoli oggetti che l’uomo faceva scorrere tra le mani come un rosario: un pezzo di carbone, un bastoncino bruciato, delle monete, delle farfalle. Ogni volta che le sue dita incontravano un oggetto, si accendeva in lui un ricordo. Quella corda l’uomo la regalò a David.

Si potrebbe pensare che a partire da quel giorno David tenne sempre con sé la corda, ma come sempre accade i “fatti non sono mai all’altezza delle idee o delle promesse”. La verità è che la corda finì nel comodino della sua camera per anni e gli tornò in mente solo quando iniziò a scrivere il suo libro e decise di applicare quel modo di ricordare alla sua penna, sarebbe andato da un tema all’altro proprio come le dita dell’agente di assicurazioni andavano dal pezzo di carbone, al bastoncino bruciato, alle monete, alle farfalle.

“Conserva la corda. Un giorno ti sarà utile – mi disse quell’uomo. La sua profezia si sarebbe avverata”.

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