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Recensione: “L’incognita” – Il precario equilibrio della razionalità

Recensione: "L'incognita" - Il precario equilibrio della razionalità Recensione: "L'incognita" - Il precario equilibrio della razionalità“Siamo parte di questo Universo. Siamo dentro questo Universo. Ma ciò che è forse più importante è che l’Universo è dentro di noi.” (Neil deGrasse Tyson)
I nostri atomi provengono dalle stelle. E sono proprio gli atomi, minuscoli, impercettibili e invisibili, a essere la cosa più sorprendente dell’Universo. La materia di cui siamo fatti.
Questa semplice corrispondenza ci spinge a riflettere sull’essenza più profonda dell’esistenza.
Qual è il vero significato della vita? Un interrogativo che ognuno di noi prima o poi si pone, espressione di un bisogno innato dell’uomo di trovare un senso alla propria esistenza.

Il senso della vita è il vero protagonista del libro di Hermann Broch, L’incognita, edito da Carbonio dopo anni di oblio.

La vita è il senso della vita stessa. Non esistono definizioni universalmente adatte a tutti. Il senso della vita non include solo la percezione, ma anche la direzione. E le rotte possono essere infinite.
Un piccolo nucleo familiare è teatro delle varie rotte intraprese dai suoi componenti.
Punto di partenza comune è la morte del capofamiglia, persona “oscura” e “immobile”, capace di fagocitare e ancorare la naturale vitalità della moglie e dei figli.
Dal lutto si irradiano le diverse esistenze di Richard, sua sorella Susanne, suo fratello Otto e la madre Katharine.

(…) in fondo l’infinitamente grande non è più sorprendente dell’infinitamente piccolo, eppure lì all’osservatorio si poteva esser toccato in qualche modo dall’emozionante consapevolezza di quelle dimensioni colossali, immense, che curiosamente imprimono nell’anima di ogni essere umano la traccia dell’eternità divina (…)
Non è un romantico Richard Hieck, è un matematico arenato negli studi sulla teoria degli insiemi, eppure accetta un impiego in un osservatorio astronomico e goffamente cerca di conciliare insiemistica e atronomia. Perchè goffo sì, lo è, nei modi e nell’aspetto.

Un aspetto che non deriva da sua madre, donna graziosa, inquieta, ancora giovanile nelle forme e pronta a sbocciare nuovamente tra rimpianti per il tempo passato e speranze in un ancor roseo futuro. Aspetto il suo, forse più simile alla sorella Suzanne, imbottita di pinguedine e di fanatismo religioso. Aspetto opposto di certo all’atletico Otto, in ricerca forsennata dei rapidi piaceri della vita, come se presagisse il poco tempo a lui capitato in sorte. Aspetto diverso anche dagli altri due fratelli fuggiti per il mondo… Due presenze sbiadite come antiche foto esposte troppo alla luce.

Richard fa dei suoi studi una trincea. Eppure appena si sporge un attimo per scrutare con lo sguardo oltre la linea di difesa, incontra la vita e tutte le possibili perturbazioni del caso.
La prima è quella del desiderio sessuale, un corpo di donna in un costume da bagno bianco, una pulsione che, come la fame, lo spinge verso la gratificazione e il soddisfacimento di un bisogno impellente ma represso.

La seconda perturbazione è quella dell’innamoramento, costituita dall’euforia iniziale di una più rassicurante conoscenza femminile.

L’antidoto a cui farà ricorso sarà l’uso della ragione, la scelta di comodo di un rapporto in cui dominano la calma e la sicurezza che si ricavano da una relazione di accudimento, affetto e protezione.

La vita di Richard scorre dunque lungo la rotta da lui scelta, ma la verità è che non esiste una rotta assoluta e anche le definizioni personali tendono a modificarsi nel tempo.
Così da carenze infantili insanabili prende forma un complicato intellettuale, intento a costruire logiche gabbie intorno alla propria emotività, che tuttavia gli sfugge sibilando come uno spiffero nell’angusto spazio tra porta e pavimento.

Complicato è, in verità, tutto il romanzo e, avaro di sugo succulento. La prosa è eccellente e tersa nella traduzione di Luca Crescenzi e tocca a volte con perfezione matematica inaspettati picchi poetici.

“Richard spinse un piede davanti all’altro, una scarpa davanti all’altra, e lentamente cominciò la salita verso l’osservatorio, così da farvi arrivare il suo corpo all’orario stabilito”.

Tutto scorre senza pathos, finché non è il pathos a irrompere come solo un’incognita può fare.

Scritto negli anni del nazionalsocialismo, il romanzo non fa alcun accenno alla politica. Immacolato e cristallino, lontano da qualsiasi connotazione ideologica, è quasi atemporale; è il romanzo dell’intelletto umano, anzi, potremmo dire senza tema, di un singolo intelletto umano, Richard.

Hermann Broch (1886 – 1951), tra gli scrittori della “finis Austriae”, in Italia forse il meno conosciuto, è il motore di un unico grande fuoco generatore che caratterizza l’intera sua avventura creativa, un continuo cortocircuito, frutto dell’incontro tra poesia e conoscenza, tra forma e verità: “Scrivere significa per me voler conquistare conoscenza attraverso la forma, e una nuova conoscenza può essere creata solo attraverso un nuova forma. (…) Un’opera che non rappresenta una nuova conoscenza ha perso il suo autentico significato”.

Il tema del rapporto tra poesia e conoscenza rappresenta un nodo centrale dell’intera produzione di Broch che ne L’Incognita ritorna con frequenza quasi ossessiva.
Impossibilitati e incapaci a scegliere tra le due i suoi personaggi si arrendono dunque alla non facile accettazione di una realtà di seconda mano?

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