Recensione: Obabakoak - "Volevo trovare una parola e con quella finire il libro" Recensione: Obabakoak - "Volevo trovare una parola e con quella finire il libro"

Recensione: Obabakoak – “Volevo trovare una parola e con quella finire il libro”

Recensione: Obabakoak - "Volevo trovare una parola e con quella finire il libro" Recensione: Obabakoak - "Volevo trovare una parola e con quella finire il libro"Obabakoak
di Bernardo Atxaga
Traduzione di Sonia Piloto di Castri
Casa editrice 21lettere

La lettura è così piacevole e inconsueta che arrivo presto alla pagina 21, e lì il mio occhio è catturato da un segno nero sul bordo inferiore. Ricontrollo per esser certa e uno sguardo rapido in copertina mi conferma che al posto del numero “21” a piè pagina è stampigliato il logo della casa editrice, “21 lettere” appunto.

Questo dettaglio mi fa sorridere. Già lo scritto aveva innescato in me questa predisposizione al sorriso, quel sorriso intimo e silente che passa dagli occhi alle labbra… Obabakoak, le cose di Obaba, è una raccolta di racconti scritti originariamente in lingua basca. E non si può prescindere da questo particolare che dà ai racconti una patina di preziosa fragilità.

Ogni scrittore lavora per i lettori di domani lasciando a essi l’eredità del proprio lavoro e il compito della lettura e rilettura delle proprie opere. Allo stesso modo Bernardo Atxaga scrive per colmare un vuoto, per lanciare un ponte nella letteratura basca.

Gli abitanti di Obaba sembrano vivere senza il bisogno del tempo. Le storie fluiscono pigramente attraverso gli anni, in un continuo andirivieni di ricordi e vita. Ricordi e vita che sono soprattutto quelli raccontati, scritti: una corrispondenza epistolare, un vecchio manoscritto, racconti declamati alla luna in una notte di bagordi, racconti in gara in una serata tra amici, una scrittura nella scrittura, racconti nei racconti, in un concatenarsi di immagini e parole infinite.

Effetto Droste, è questa la sensazione che dopo un pò nasce dall’addentrarsi nel libro, accompagnata da una leggera vertigine. La definizione “effetto Droste” fu coniata alla fine degli anni settanta dal poeta e giornalista Scheepmaker, che si ispirò al marchio olandese di cacao Droste, sulla cui scatola c’era l’immagine di una suora che teneva nella sua mano un vassoio su cui era poggiata una scatola di cacao che riproduceva l’immagine di una suora con un vassoio con su una scatola, e così via… all’infinito o finchè l’occhio riusciva a distinguere le sagome che si susseguivano l’una nell’altra.

Obaba è un paese immaginario, è un luogo/non luogo, ha l’odore polveroso di quei paesi dimenticati, abbandonati, da cui non si vede l’ora di poter scappare, e a cui non si può fare a meno di tornare, con un’età diversa, con un diverso sguardo, magari solo per scoprire l’enigma di un ramarro tenuto tra le mani del tuo peggior compagno di classe in una vecchia foto di gruppo.
Un particolare che diviene via via ossessione, una piccola inquietudine somministrata al lettore come quelle favole paurose che ci raccontavano nell’infanzia, come quella del Sacamantecas, il ladro di bambini.

“Non andare in giro da solo quando è buio, perchè verrà il Sacamantecas e ti porterà via”.

Ancora racconti di racconti, dunque, una metanarrazione dove Bernardo Atxaga interviene all’interno del testo che sta componendo inserendo una sua autobiografia ispirata al gioco dell’oca. Il risultato è la storia dell’atto stesso del raccontare. In questo modo il narratore affronta questioni teoriche sul modo e sulle motivazioni dello scrivere: dallo svelamento delle tecniche del racconto, al plagio e alle scelte più profonde che sottendono la scrittura.

Questo è il filo con cui si tengono insieme i racconti, come perle, una accanto all’altra. In questo modo l’autore stabilisce un rapporto con il lettore, creando con esso un dialogo continuo, ironico e brillante. Pian piano entriamo nel paese di Obaba e ne scopriamo le leggende, le storie tramandate di padre in figlio, come quella del bambino maltrattato che si trasforma in cinghiale terrorizzando di notte i cacciatori; scopriamo le stramberie dei suoi abitanti o di coloro che ci vivono per qualche breve periodo; percorriamo tutte le curve che bisogna affrontare per arrivare in cima al paese, come facevano in bicicletta i ragazzini più coraggiosi, quelli che si guadagnavano il diritto di far parte dei ragazzi “grandi”… Un lungo sentiero percorso per arrivare alla parola ultima, quella che dovrebbe dare senso e anima all’intero insieme di parole.

“Volevo trovare una parola e con quella finire il libro. Voglio dire che volevo trovare una parola sola, non una parola qualsiasi, ma una parola che fosse decisiva ed essenziale”.

Anche Joubert è collocato su questo sentiero, Joubert che compare nei sogni di uno dei protagonisti, Joubert lo scrittore che affermava: “Conosco un uomo tormentato dalla maledetta ambizione di mettere tutto un libro in una pagina, tutta una pagina in una frase e tutta una frase in una parola; sono io”.

Sono arrivata all’ultima pagina e il sorriso che mi ha sempre accompagnata si trasforma in sincera commozione. Una lacrima, forse due, sfuggono amare all’intreccio delle ciglia.

Immagino verdi ramarri percorrermi la schiena fino ad arrivare alle mie orecchie e…

Chiudo il libro e riguardo il logo in copertina, 21 lettere, il profondo legame tra il testo e la filosofia di questa casa editrice, impreziosisce la mia esperienza e dà un sapore particolare alla mia lettura:
“Tutto quello che c’è qui dentro è una combinazione di 21lettere, più una manciata di segni di punteggiatura e 5 lettere straniere. Tanto basta. Il resto è dentro a una persona, e passa a un’altra persona. (…) 21lettere, è tutto quello che rimane. E le storie.”

Intanto un ramarro si infila lesto nel mio orecchio…

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