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Recensione: “Shiva Baby”, una difficile libertà sessuale

Recensione: "Shiva Baby", una difficile libertà sessuale Recensione: "Shiva Baby", una difficile libertà sessualeLa prima scena del film è una situazione di sesso: sono coinvolti Danielle, giovane ebrea di fatto protagonista del film e Max, il suo sugar daddy, ovvero un uomo molto più grande che la sostiene finanziariamente in cambio di prestazioni sessuali e anche un po’ di affetto.

La ragazza disinvolta, quasi sfacciata che vediamo in quell’incipit mostra l’altra faccia di sé immediatamente dopo, quando si riunirà con suo padre Joel e sua madre Debbie per partecipare a una giornata di shiva, la riunione ebraica di amici e familiari in un periodo di lutto.
Lì Danielle assumerà i panni di una ragazza un po’ infantile, sottomessa, scolaretta con forse un tratto da monella. Una recita perfetta per un contesto chiuso ed estremamente tradizionalista.

A complicare le cose, però, ci sarà la presenza di Maya, con la quale ha sperimentato in passato, questione tutt’altro che chiusa, la propria bisessualità. Senza contare che, poi, appariranno alla shiva anche Max con la moglie Kim, peraltro shiksa, ovvero non-ebrea, e la loro piccola figlia…

Shiva Baby, disponibile esclusivamente sulla piattaforma Mubi, è una commedia degli equivoci e anche una riflessione amara su molti dei vizi della nostra società. Dirige il film una giovane regista e scrittrice di appena 25 anni, Emma Seligman. Canadese di nascita, ora stabilitasi a New York, a sua volta è ebrea e bisessuale. L’esperienza personale conferisce al lavoro della Seligman una naturalezza di racconto e una profondità che aggiungono molto a Shiva Baby e contribuiscono alla assoluta godibilità del risultato.

Di fatto il film si svolge in un’unica location, ovvero la casa oggetto della riunione funebre. Questo conferisce a Shiva Baby una evidente matrice teatrale, comunicando allo stesso tempo la claustrofobica esperienza di vita dei giovani ebrei, impossibilitati a uscire da riti, convenzioni e persino da una comunità dalla quale sembra impossibile evadere, per costruire una propria identità, sia essa sociale, lavorativa o sessuale.

 

La Seligman si muove bene con la macchina da presa e sceglie in maniera evidente come riferimento uno dei registi ebrei simbolo per quanto riguarda la commedia dolceamara: stiamo ovviamente parlando di Woody Allen, i cui riferimenti e citazioni si succedono in maniera discreta ma mai celata.

Shiva Baby, nonostante sia un film fondamentalmente introspettivo e in un certo senso angosciante, scorre come acqua fresca, riuscendo a non annoiare mai e anzi costruendo, scena dopo scena, una vera empatia tra lo spettatore e Danielle, descrivendo mirabilmente il percorso, inarrestabile e costante, del suo breakdown, sebbene in fondo il finale sia consolatorio e pieno di speranza.

Il film è la riproposizione in lungometraggio di un corto precedente e forse anche per questo il minutaggio è contenuto (un’ora e 17 la durata), dando alla narrazione una piacevole impressione di compattezza: Shiva Baby scorre veloce e arriva, diritto e filante come una freccia, a colpire le nostre coscienze assopite da troppo politically correct.

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