Storia di un’icona rock
Estate 1967. La ventenne Patricia Lee Smith lascia il New Jersey rurale per Manhattan, la capitale dell’auto-reinvenzione. Nella sua valigia, “Les Illuminations” di Rimbaud e un taccuino. Primo incontro, prima cotta: Robert Mapplethorpe, non ancora fotografo, ha ambizioni per due. In sua compagnia, Patti parte alla conquista di una New York dove incontra Andy Warhol, Janis Joplin o Jimi Hendrix. Nei corridoi del famoso Chelsea Hotel, in contatto con Allen Ginsberg e William Burroughs, affila la penna e trova la sua strada. Una storia che – tra materiali d’archivio e concerti leggendari – Sophie Peyrard e Anne Cutaia raccontano nel documentario “Patti Smith Electric Poet”, in onda martedì 21 novembre alle 23.10 su Rai 5, per ripercorrere il viaggio di un’amante delle parole che è diventata un’icona del rock e una dei maggiori artisti del nostro tempo.
Dopo alcune notevoli letture delle sue poesie e un singolo autoprodotto, i suoi primi concerti al mitico Cbgb rivelano un vero “animale da palcoscenico”. I suoi pezzi impongono una scrittura e un canto di una novità radicale. La sua voce, il suo stile, il suo atteggiamento, sono completamente inediti. Nel 1975 il suo primo album Horses, firmato da Clive Davis per l’etichetta Arista, ebbe l’effetto di una detonazione. Il rock si trasforma per sempre.
Un punk nel cuore, Patti Smith non ha ceduto al richiamo della celebrità e in cinquant’anni di carriera ha creato la propria mitologia senza mai scendere a compromessi. Un’icona controcorrente: ama la musica, la fotografia e la letteratura.
Figura atipica, rivoluzionaria nel rock protagonista del proto-punk, della New wave. Il carisma interpretativo e la potenza dell’uso delle parole nelle sue canzoni le hanno fatto guadagnare il soprannome di ”sacerdotessa maudite del rock”.
“Sono come un orologio, cioè composta di tanti pezzi che, messi insieme, danno qualcosa di esatto o quasi.” ha dichiarato.
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