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La luna storta di Francesco Tozzi – Faccia a faccia con la vecchiaia

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Faccia a faccia con la vecchiaia

La vecchiaia l’ho incontrata vicino l’argine di un fiume, di sera. In lontananza i lampi brillavano nel cielo blu, nero e grigio; nessun rumore se non quello del silenzio pesante, del niente incolore, della vergogna di restarsene inerte a guardarsi la vita scorrere via su una teleferica la cui fine si perde chissà dove, in un vago, crudele rumore metallico che si allontana secondo dopo secondo.

Ho tirato su col naso, ho cominciato a singhiozzare, rumorosamente, senza vergogna, prendendo grandi boccate da un sigaro che si consumava alla velocità della luce mentre anima, testa e stomaco se ne andavano in subbuglio.

“Lotto per rubare uno scettro che qualcuno più giovane di me dovrebbe rubarmi, lo so. Ho visto negli occhi di quegli aspiranti ladri la delusione, scoprendo che io, sì proprio io, non l’avevo, quello scettro. E non l’avevo mai avuto.”

Un tuono. Un lampo. Un’altra boccata. Un colpo di tosse.

Comincio a lacrimare e scatarrare, sputo come un lama, vorrei urlare ma non riesco; batto i piedi per terra sollevando ghiaia, continuando a sputare, a prendere boccate dal sigaro ormai agli sgoccioli.

“E’ questa la vecchiaia? E’ arrivata, dunque?”

Un tuono. Un lampo. Un’altra boccata.

“Sì, è arrivata” penso “adesso è proprio finita”. Sento, per la prima volta, che sto sbagliando, che sto vergognosamente sbagliando e che, soprattutto, sto sbagliando perché avevo cominciato a sbagliare tempo prima, e credevo di aver preso una grande decisione.

“Non è così. Non è così!” vorrei urlare. Non lo faccio.

C’è qualcuno, in lontananza, che se la ride. Non lo vedo, non so dov’è; ma l’ho sentito. L’ho sentito bene. E forse non è da solo. Incurante dei lampi e dei tuoni, di quei rumori da indemoniato che si rode, lui (o loro) se la ride.

“Che si rida di me?”

Vorrei che da quelle nuvole sporche se ne uscisse qualcuno, una sagoma cara, un tableaux vivant al sapore di Madelaine, qualcuno che con voce leonina mi rassicurasse. Niente. Solo l’eco di una risatina, lontana, lontana come rischia di andare – sempre su quella teleferica di cui sopra – la mia vita.

Rincorrere le risate di qualcuno che non conosco o la vita? Cosa sto facendo? Cosa stiamo facendo? Perché sono qui? Chiuso come un vecchio dentro una convinzione e un sentimento solo, distante, nostalgico, appannato.

Perché? No, non è cosa da farsi. Andare bisogna, in direzione ostinata e contraria a quei lampi, a quei tuoni, a quelle risate lontane. A caccia della vita, ché la vita, si sa, è altrove. Con, in sottofondo, una musica dolce, tipo “Vieneme n’zuonno” di Sergio Bruni.

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