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La luna storta di Francesco Tozzi – Les affaires sont les affaires (sempre i soliti)

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Les affaires sont les affaires (sempre i soliti)

Circa quello che è definito, in questi ultimi giorni, “l’affaire teatro di Roma”, condividerei volentieri il post di Theatron 2.0 (potete trovarlo sulla pagina Facebook e/o Instagram omonima); a rendermi perplesso però, è il tono.

Mi spiego meglio: faccio questo lavoro da 17 anni, ne ho viste “di ogni” in fatto di nomine di direttori dei teatri: sinceramente non capisco perché questa debba creare più scalpore delle altre.

La misura è colma? Bene.

È giunto il momento di alzare la voce? Così pare, dato che un’istituzione importante come Theatron si pone in prima linea.

Mi perdoneranno però quelle/quei barricadere/i dei miei colleghi, se come al solito mi prendo un attimo per riflettere ad alta voce.

Leggo il post e sono certamente d’accordo con ogni singola parola: il mancato ricambio generazionale, la totale assenza di papesse in favore dei papabili, che il Teatro di Roma sia una struttura in crisi; ma la colpa è solo del sistema, del potere?
Cioè, noi addetti (o adatti) ai lavori, siamo solo vittime, o talvolta siamo stati anche (e ben volentieri) i complici di questa situazione? Faccio questo lavoro da 17 anni, pochi rispetto ad altre/i colleghe/i; ma abbastanza per annusare da lontano le consuete, trite e ritrite “indignazioni a orologeria”.

Qual è il problema, stavolta? Fatemi capire.

Che qualcuno ha messo in un posto di comando un suo “amico”?

È davvero uno scandalo, in questo Paese?

È davvero (giornalisticamente parlando) una notizia?

Non vorrei fare benaltrismo; ma dov’erano questi Soloni delle questioni morali quando per l’allestimento de “La bisbetica domata” di Konchalovskij venne specificatamente richiesta (e implicitamente imposta) alle attrici e agli attori la partita IVA, anche solo per partecipare al provino?

Dov’erano i grandi nomi dello spettacolo, del cinema e della televisione, quando si facevano provini finti per prendere soldi dalla regione e/o dallo Stato, sapendo già chi si voleva scritturare? Non si può parlare di Roma, poi, senza tenere conto della politica, che ha sempre deciso la nomina di questo di quello – e mi pare giusto, è la politica che fa andare avanti il teatro, in questo paese dov’è lo scandalo?

Chi dovrebbe decidere il nome del nuovo direttore di un Teatro Nazionale? Mia madre? Con quali competenze? Come, poi? Tramite televoto?

Accendo la televisione e sento Tomaso Montanari, il rettore dell’università di Siena, dire: “amichettisti sarete voi” (sempre con ‘sto noi e voi): rido. Perché lo so io cosa vuol dire fare questo mestiere essendo o non essendo amico di Qualcuno. E lo sa anche Montanari; però non lo dice – e perché non lo dica non lo so, non voglio nemmeno saperlo.

La storia del Teatro di Roma, poi, correggetemi se sbaglio, non è certo legata al modello di prosa tradizionale che il Teatro Nazionale della città suddetta propone (e impone) da anni – o almeno non soltanto; Roma ha una storia pregressa di teatro sperimentale e di avanguardia “in spazi altri”, o di teatro di rivista e teatro musicale che non ha precedenti; di questo però non si tiene conto, quello che si vede a Milano si vede a Roma (tranne rarissime eccezioni). Mi chiedo: è possibile? È sostenibile? Stiamo parlando di un sistema teatrale malato in una città malata, signori miei, altroché stracciarsi le vesti per la consueta nomina del kaiser!

Cos’è successo, dunque? Qualcuno non ha rispettato, evidentemente, l’organigramma occulto, il percorso carsico, che ad ogni nuovo amministratore viene imposto quando si parla di nomine – a prescindere dall’appartenenza politica. È stato fatto uno sgarbo, questo è chiaro.

Sapere a chi, ecco, questa sarebbe, giornalisticamente, una bella, una vera notizia.

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