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Recensione: “Baci all’inferno” – flussi caotici di coscienza

Recensione: "Baci all’inferno" - flussi caotici di coscienza Recensione: "Baci all’inferno" - flussi caotici di coscienzaBaci all’inferno
di Ariana Harwicz
tradotto da: Giulia Zavagna e Marta Rota Núñez
Ponte alle Grazie Editore

Cominci a leggerlo e ti sembra di entrare in un incubo.

Baci all’inferno di Ariana Harwicz è un viaggio all’interno del labirinto di una mente, anzi due, infatti comprende due romanzi brevi, “La debole di mente” e “Precoce”.

Il romanzo è suddiviso dunque in due flussi caotici di coscienza: il primo è quello di una figlia rispetto alla propria madre, il secondo, quello di una madre rispetto al proprio figlio.

Nel mezzo c’è ogni cosa. I racconti sono disarticolati, disorganizzati, i periodi lunghi senza quasi mai fine.

La scrittura della Harwicz è claustrofobica; riesce a far rivivere al lettore l’inferno nella testa dei protagonisti, le loro suggestioni, le loro ossessioni, la loro rabbia.
Il linguaggio è molto violento, gli ambienti descritti degradati, caotici.
Nel leggere il romanzo si rimane spiazzati perché non si sa mai dove ci si trova e se le protagoniste stiano raccontando qualcosa di vero o se il loro è solo un delirio dovuto alla disperazione.
L’inferno è lì, in quell’instabilità estrema, in quella paranoia assoluta che rende paranoici anche noi che leggiamo e ne rimaniamo turbati.

Ma ciò che turba maggiormente è il perverso rapporto genitore-figlio.

Nel primo racconto in particolare, il legame ambivalente madre-figlia ci riconduce a Demetra e Persefone: la protagonista che tenta in ogni modo di affrancarsi da quel gigantesco e asfissiante archetipo materno, sacrificando la propria serenità sentimentale, scegliendo la strada peggiore, quella fallibile, quella che la riporterà però nuovamente all’inferno, che non è tanto quello di Ade, ma quello della simbiosi perversa e distruttiva con sua madre; un loop eterno che non la porta mai all’autodeterminazione e non la fa emancipare.

Nel secondo invece ritroviamo una Medea oscena, che simbolicamente (o forse no) immola il proprio figlio in una sorta di delirio fagocitosico morboso e inquietante.

La lettura della Harwicz è per stomaci forti, per menti aperte e consapevoli che non amano una lettura convenzionale, ma che amano più che finali aperti, letture in cui abbandonarsi a suggestioni che posso rievocare perfino i propri inferni personali.

 

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