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Recensione: “L’equilibrio delle lucciole” – L’abbraccio dei luoghi dove è “casa”

Recensione: "L’equilibrio delle lucciole" - L'abbraccio dei luoghi dove è "casa" Recensione: "L’equilibrio delle lucciole" - L'abbraccio dei luoghi dove è "casa"“L’equilibrio delle lucciole”

“Ogni punto di partenza ha bisogno di un ritorno. Meizoun”.
Ritrovare se stessi partendo dal principio, ritornare a Casa.

“Sai, Ninno. Ho conosciuto due giovani che si erano parlati una volta e lei aveva già il cuore che scalciava.
Lui pure aveva il cuore in lei.
Non si erano detti niente. Che a volte è bene non dire.
La gente non vede bene l’amore da subito.
La gente pensa che ci vogliono chissà quante parole.
La gente si sbaglia.
A volte ci sono amori da subito che non riescono a morire.”

Questo è : “L’equilibrio delle lucciole”, primo romanzo di Valeria Tron (Salani Editore), nata in Val Germanasca. Cantautrice, illustratrice, mediatrice culturale e artigiana del legno, è stata finalista del Premio Tenco.

Solitamente inizio a lavorare alla recensione di un libro subito dopo averlo letto così da non perdere la percezione e la connessione con la storia e non rischiare di dimenticare qualcosa. Con il romanzo di Valeria Tron è valsa la regola esattamente opposta. Ho impiegato più o meno una settimana per buttare giù due semplici righe, per capire da dove iniziare e cosa dire e/o non dire per non incorrere nel rischio di togliere al lettore il gusto della lettura. Ho deciso, quindi, di partire da una banalità ovvero dal non farsi impressionare dalle 394 pagine con cui si presenta il libro e non perché i caratteri sono stampati in un formato un pò più grande e impaginati non fitti fitti, ma perché le parole al suo interno volano come farfalle, sono così belle, delicate e profonde che arrivare all’ultima frase è un attimo.

La casa sono i cuori che vivono dentro i muri.
Adelaide, è una giovane donna in piena crisi matrimoniale, che non appena prende coscienza del fallimento del suo secondo matrimonio decide di tornare nel suo borgo natio tra le montagne della Val Germanasca, sperando che l’abbraccio delle mura che l’hanno cullata nella sua infanzia e delle persone care ancora rimaste possano aiutarla a ritrovare se stessa e a capire da dove ricominciare.

“Sono qui perché, bé, sai. Certe volte la vita va storta e devi ripensarla. E’ andato a ramengo il mio matrimonio una volta, e temo di essere in procinto di un bis…..”
Silenzio.
“E poi vorrei ritrovarmi prima che la prèso cambi il mio sguardo sulla cose.”
“Maleirozu prèso” conferma Nanà. Maledetta fretta.

E così attraverso le confidenze e i ricordi custoditi da Nanà, Adelaide va ben oltre il ritrovare se stessa, riscopre le persone a lei care e che non ci sono più sotto una veste diversa e a prescindere dai loro insegnamenti le impara a conoscere per gli uomini e donne che sono stati, con i loro amori, sogni e debolezze. In un piccolo borgo dove sono tutti amici di tutti e si sostengono a vicenda, dove gli Zii sono tali al di là dei legami biologici.

“Memè, Nanà e dando Irma erano le sole a conoscere la verità nel cuore di Lena: quattro donne così, gli si potrebbe attribuire una stagione a ognuna e si avrebbe un calendario completo di tutto.
Nanà è primavera, così attenta alla vita, speranzosa anche oggi, timida come un bucaneve.
Dando Irma sventola l’estate, con la sua vivacità e il suo temperamento spensierato.
Memè è come l’autunno: premurosa e pronta al sacrificio; poi, dando Lena: l’inverno. Così rigido e severo eppure custode dell’amore dolce, ben riparato sotto strati di ghiaccio. Sorprendente, nel suo ermetismo di neve.”

Adelaide riscopre anche il piacere dei cibi e delle ricette tipiche del posto, li assapora con gusto e attraverso le accurate e minuziose descrizioni della Tron, ci si può immaginare di essere nella cucina di Nanà e sentire i profumi e sapori.

“La sua minestra ha sempre lo stesso sapore, sa di violette e fieno bagnato. L’inverno è confinato al di là di questa cucina. Nel piatto fumante aggiunge un’unghia di burro, un pizzico di noce moscata e mescola lentamente, poi, con soffi ritmici, intiepidisce la zuppa.
• Tu minge trop vitte, Ninno – dice osservando il mio piatto già vuoto da un pezzo. Ha ragione, mangio velocemente e nemmeno me ne rendo conto.”

Adelaide racconta tutto in prima persona e talvolta scrive al figlio Gioele.
Le parole utilizzate hanno un che di poetico, scelte accuratamente per toccare il lettore, per scuoterlo, quasi a volerlo risvegliare dalla routine quotidiana per ricordargli quali siano le cose davvero importanti e quanto non ci si debba accontentare della mediocrità solo per la paura del cambiamento, del fallimento personale. Il romanzo mi ha profondamente commosso in più punti, mi ha riportata alla mia infanzia, a quel paesello di campagna dove i miei zii erano coloro che di fatto non lo erano per davvero e all’altra campagna, fatta di profumi di finocchio selvatico e lavanda, di nonni, zii e cugini.

Con la sua prosa poetica, Valeria Tron ha saputo raccontare quella che potrebbe essere la storia di molti di noi e utilizzando anche il dialetto tipico del luogo ha reso tutto ancora più realistico. Noi siamo dei luoghi e delle persone che ci appartengono perché ci rendono felici e appagati, perché sono casa. Meizoun.

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