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Recensione: Su Nexo+ “Nel paese dei coppoloni” – Odori, suoni e sapori stratificati sulla pelle

Recensione: Su Nexo+ "Nel paese dei coppoloni" - Odori, suoni e sapori stratificati sulla pelle Recensione: Su Nexo+ "Nel paese dei coppoloni" - Odori, suoni e sapori stratificati sulla pellePiccolo gioiello tutto italiano, Nel paese dei coppoloni, diretto da Stefano Obino, fa parte della sezione musica di Nexo+.
Vinicio Capossela, poliedrico cantautore, in veste di Dante contemporaneo, racconta alla macchina da presa il proprio ritorno in quell’Irpinia nido di culture, racconti e canti, protagonista del suo omonimo romanzo, con musiche tratte dall’album “Canzoni della Cupa”.

“… Come i canti che una volta uditi mi suonano dentro e che affido ad altri cantando. I canti che seguono rotte antiche, e vagano, e vagano il mondo pure loro. Cambiano il pelo della lingua, ma continuano il giro senza fermarsi. Come fanno le greggi che si portano dietro il pastore, che pure crede di esserne il padrone. Cambiano nome i canti, e tramutano un poco la melodia, ma non il moto d’animo che li ha originati. Tanti ne ho sentiti. Come gli inquieti erano, così le canzoni transumano, dietro le pezze dei vagamondo”

“Chi sei?”, “a chi appartieni?”, “cosa vai cercando?”, nel paese dei coppoloni tutti fanno le stesse domande.
“Cerco le mie origini e musica e musicanti” risponde il viaggiatore e, forse, è per questo che tutti gli raccontano di feste e matrimoni e balli estenuanti che ti stramazzano nella casa dell’Eco. E poi gli raccontano della nostalgia e dei bei tempi, prima che la terra tremasse e l’avvento del Contributo mutasse tutto. Il contributo che fa marcire e cambia la gente, che non ha più voglia di zappare la terra, ha solo lascivia della Rrobba, dei denari.

E gli raccontano di come la Gente, questa grande entità concreta e astratta insieme, non si sposa più come “baccalà” e i bambini non nascono più, perchè la busciarda, la televisione, mostra un mondo diverso, nulla di vero, nulla di autentico, ma che tutti bramano.

Si son salvati i Carianesi tuttavia, che con i loro coppoloni calati sulla testa non sentono e non vedono. I loro sogni e i loro pensieri sono arroccati sulla montagna, insieme al loro paese, protetti dalla nebbia.
Con un funambolico miscuglio di italiano e di dialetti meridionali, inspiegabilmente comprensibili grazie alla loro forte carica espressiva, si srotolano note di vischiosa densità, la musica racconta con il passo dondolante del pellegrino di una strana terra satura di magia e di fantasmi, di lupi mannari e Ape Piaggio. Melodie eredi di tradizioni antichissime e traboccanti di misteri.

I misteri di quell’Irpinia sopravvissuta al terremoto del 1980, una Irpinia in cui il tempo si è fermato dopo il 1980, come il grande orologio, la Relogia, che si è fermato con le prime scosse.
Una musica immobilizzata e ridondante, che sotto gli assalti di una modernità che tenta di lacerare antiche tradizioni, rizampilla in mille ruscelli.

E così, cammina cammina, ci si incrocia con musicisti e custodi del passato. Li puoi chiamare col loro Stortonome, perchè il nome vero qualcuno l’ha persino dimenticato. E per il pellegrino, guadagnare uno Stortonome diventa trofeo e fardello insieme, da portare in processione sulla strada della musica, quella dei matrimoni, delle feste. La musica che accompagna la fatica, che profuma di sudore e polvere e calcinacci tremolanti. Una musica che snocciola stornelli e che ripercorre il tempo all’incontrario, lontano lontano, fino a unirsi ai primi baccanali.

Percorso magico e insieme antropologico fatto di immagini e musica, tra miti dionisiaci, vino e brasciole.

Quello che racconta Capossela è il mondo fatto di bottegai che cantano insieme ai loro avventori, di musici che intrecciano il dialetto calitrano al latino, di canzoni popolari che esalano con i vapori della terra in mezzo ai campi al tramonto, di trebbiatrici giganti che sembrano astronavi.

Ed è proprio buttandosi giù dalla trebbiatrice volante del tenente Dum, che il viaggiatore termina il suo viaggio. Vi era salito per raggiungere la luna. Quella luna piena delle lacrime e dei dolori del mondo.

“È esattamente come parlare di Omero, c’è sempre una dimensione mitica. Io non voglio non raccontare questa terra per quello che è, c’è un tentativo di continuo di trasportarla in una dimensione un po’ diversa. Mi piace rinominare i paesi, i luoghi, le contrade, i personaggi. Quello che ho sempre amato di più della cultura popolare paesana è proprio il riscrivere il mondo in una maniera diversa. Per esempio le indicazioni topografiche: se uno sta a sentire un paesano non trova riscontri, perché non esistono nella carta geografica. È bellissimo, è un processo molto diverso, è un viandante che gira per conoscere, è un ri-conoscere”. 

Il viaggio diverrà il nostro viaggio carichi di quel bagaglio inconsapevole che ci trasciniamo dentro, fatto di odori, suoni e sapori stratificati sulla pelle, increspata di sale e polvere di scirocco. Il viaggio dove “un paese ci dice di tutti i paesi del mondo”.

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