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Recensione: La última primavera – La grazia dell’appartenenza

Recensione: La última primavera - La grazia dell'appartenenza Recensione: La última primavera - La grazia dell'appartenenzaCampo de’ Fiori, dominata dallo sguardo severo della statua di Giordano Bruno, è una delle piazze più famose di Roma. Piena di fascino e storia, ha una doppia anima. Al mattino vi risuonano le voci dei mercanti che vendono spezie, frutta e verdura, di sera la piazza si colora di turisti attratti dai localini che la circondano.

Proprio qui, dal 1° al 7 ottobre presso il Cinema Farnese Arthouse, si tiene la 14a. edizione del Festival del cinema spagnolo e latinoamericano, diretto da Iris Martín-Peralta e Federico Sartori.

Caratteristica del Festival è un’incessante ricerca e attenzione al cinema di qualità, senza vincoli di genere o formato, con un particolare interesse alle opere prime, ai talenti emergenti e ai film diretti da registe donne.

Nella sezione La Nueva Ola, il film La última primavera, risponde a tutte queste prerogative.
La Cañada Real di Madrid, un antico sentiero per la transumanza, è diventato il più grande insediamento abusivo della Spagna. Costruzioni illegali rendono questo quartiere provvisorio. Niente asfalto, niente fogne. E nelle vicinanze, presso l’inceneritore, uno dei più grandi mercati della droga all’aperto d’Europa. Per chi abita questi luoghi la famiglia è un bene prezioso. Ci si tiene stretti nelle pieghe della miseria e si compensa con il calore umano tutto quanto non ci si riesce a procurare.

La finalità di questo lungometraggio sembra essere, a un primo sguardo, quella di riflettere sul concetto di famiglia. Ci si interroga sull’essenza delle molteplici forme di relazioni che alimentano i rapporti fra i vari protagonisti, legati da vincoli di parentela di vario tipo e grado, che ruotano attorno a un progetto comune, coincidente appunto con la casa in cui dimorano.
Ma possono le trasformazioni che hanno interessato la società e l’ambiente circostante, determinare la scomposizione e ricomposizione di nuove aggregazioni familiari e parentali anche nella baraccopoli?
I rapporti tra i protagonisti necessitano di una lettura complessa e flessibile del concetto stesso di famiglia. Lettura che scandagli i legami fra i vari familiari, intesi in un significato più ampio di quello utilizzato normalmente per definire la stessa famiglia. Quello che affiora dallo sguardo senza fronzoli, documentaristico e spoglio della regista è un agglomerato poetico e potente, un lievito miracoloso che si nutre della grazia dell’appartenenza.

Quella gente abituata a vivere precariamente, trova le sue solide fondamenta proprio nei rapporti umani, dire addio a una casa diviene più semplice, anche se doloroso, che dire addio a un figlio ormai cresciuto, pronto a creare una nuova famiglia. L’istintiva tendenza è quella di inglobare nel proprio nucleo tutti i nuovi nati dalla propria progenie.

Il film realizzato da attori non professionisti, si avvicina per poetica alle visioni del neorealismo, a certi sguardi pasoliniani, alle suggestioni alla Ken Loach.
I personaggi, nessuno escluso, sono carichi di tensione, di determinazione, di un riscatto che a volte avviene e a volte no, ma sempre e comunque dotati di una grandissima forza d’animo e di carattere che ne fanno degli individui attenti e responsabili verso gli altri, in netta contrapposizione con un mondo che diventa ogni giorno più egoista e indifferente.

Il vissuto della famiglia si intreccia indissolubilmente a quello del vicinato, raccontando contemporaneamente le difficoltà vissute da più generazioni. Il capofamiglia dovrà scontrarsi con l’asettica freddezza dell’informatica per poter compilare moduli online, il figlio adolescente che segue un corso da parrucchiere si troverà invischiato in un brutto giro da cui a fatica lo tirerà fuori il fratello maggiore che ha già un figlio a carico e una giovane moglie.

Nessun commento musicale arriva a lenire o sollevare la pesante atmosfera carica di polvere e apprensione. L’unica musica che a un tratto interrompe il film è quella su cui ballano i genitori in un giorno di festa, stretti in un commovente abbraccio misto di affetto, comprensione, reciproca commiserazione.
Un abbraccio tanto tenero da far nascere un pianto straziante nel figlio più giovane, in cui si accende la consapevolezza della “grazia dell’appartenenza”. Lasciare la propria casa non sarà poi questo gran dramma fintanto che si è uniti, fintanto che ci si salvi e sorregga a vicenda…

La regista Isabel Lamberti, nata in Germania e cresciuta fra Paesi Bassi e Spagna, ci posiziona fin da subito in un punto di vista privilegiato. Siamo introdotti nella casa dei Gabarre-Mendoza, non ospiti, non visitatori, ma membri silenti e invisibili.
Pian piano la storia diventa la nostra storia, ci troviamo a piangere e a ridere e a tirare sospiri di sollievo come fossimo fratelli, o figli, o affettuosi vicini di casa.
La comprensione umana si spinge a tal punto da farci dimenticare che il film è in lingua originale, e i sottotitoli diventano solo una conferma di quanto intendiamo e viviamo tra le mura di casa.

https://www.cinemaspagna.org/

ROMA | 1-7 ottobre

 

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